Dinastia Giulio-Claudia, coloro che fecero l'Impero

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 12/10/2010, 18:54
Avatar

Senior Member
~~~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
11,658

Status:


c'era un buon 70 % che accadesse... diverse dinastie reali hano fatto in questo modo e alcune, come gli Asburgo di Spagna, si sono estinti

ma ora torniamo ai Cesari, e a Nerone, che se non attuò l'incesto conla madre Agrippina, stando a Svetonio almeno, vi fantasticò a lungo


La sua impudenza, la sua libidine, la sua lussuria, la sua cupidigia e la sua crudeltà si manifestarono da principio gradualmente e in forma clandestina, come una follia di gioventù, ma anche allora nessuno ebbe dubbi che si trattasse di vizi di natura e non dovuti all'età. Dopo il crepuscolo, calzato un berretto o
un parrucchino, penetrava nelle taverne, vagabondava per i diversi quartieri facendo follie, non certo inoffensive, perché consistevano, generalmente, nel picchiare la gente che ritornava da cena, nel ferirla e immergerla nelle fogne se opponeva resistenza, come pure nel rompere e scardinare le porte delle botteghe; installò nel suo palazzo una cantina dove si prendeva il frutto del bottino diviso e messo all'asta. Spesso, nelle risse di questo genere, rischiò di perdere gli occhi
e anche la vita e una volta fu ferito quasi mortalmente da uno dell'ordine senatoriale, del quale aveva preso la moglie tra le braccia. Per questo non si avventurò più in città a quell'ora senza essere discretamente seguito, alla distanza, da alcuni tribuni. Qualche volta, anche durante il giorno, si faceva portare segretamente
a teatro in lettiga e dall'alto del proscenio assisteva alle dispute che scoppiavano attorno ai pantomimi e ne dava anche il segnale. Un giorno che si era venuti alle mani e che si battagliava a colpi di pietra e di pezzi di sgabelli, anche lui gettò sulla folla un bel po'di proiettili e perfillo ferì gravemente un pretore alla testa.
Ma a poco a poco, ingigantendosi i suoi vizi, rinunciò alle scappatelle e ai misteri, e senza preoccuparsi di nasconderli, si gettò apertamente nei più grandi eccessi. Faceva durare i suoi banchetti da mezzogiorno a mezzanotte, ristorato assai spesso da bagni caldi o, durante l'estate, freddi come la neve. Arrivava anche a cenare in pubblico, sia nella naumachia chiusa, Sia nel Campo di Marte, sia nel Circo Massimo e si faceva servire da tutti i cortigiani e da tutte le
baiadere di Roma. Ogni volta che discendeva il Tevere per portarsi a Ostia o che doppiava il golfo di Baia, si installavano di tanto in tanto sulle coste e sulle rive alcune taverne nelle quali si potevano vedere donne di facili costumi, trasformate in ostesse, che lo invitavano di qua e di là, ad approdare. Egli si invitava anche a cena dai suoi amici: uno di loro spese così quattro milioni di sesterzi per un banchetto con diademi, ed un altro anche di più per adornarlo di rose. Oltre alle sregolatezze con giovani ragazzi e alle sue relazioni con donne sposate, fece violenza anche alla vestale Rubria. Poco mancò che prendesse come legittima sposa la sua liberta Acte e aveva assoldato alcuni ex consoli perché certificassero con un falso giuramento che essa era di origine regale. Dopo aver fatto evirare
un fanciullo di nome Sporo, tentò anche di trasformarlo in una donna, se lo fece condurre con la sua dote e con il suo velo color fiamma, con un gran corteo, secondo l'ordinario cerimoniale dei matrimoni e lo trattò come suo sposo; il fatto suggerì a qualcuno questa battuta molto spiritosa: «Che fortuna per l'umanità
se suo padre Domizio avesse avuto una simile moglie.» Questo Sporo, agghindato come un'imperatrice e portato in lettiga lo seguì in tutti i centri giudiziari e i mercati della Grecia, poi, a Roma, Nerone lo portò ai Sigillari, baciandolo ad ogni momento. Avrebbe voluto avere rapporti carnali persino con sua madre, ma ne fu dissuaso dai nemici di Agrippina che non volevano il predominio di questa donna odiosa e tirannica grazie a questo nuovo genere di favore; nessuno dubitò mai di questa sua passione, soprattutto quando ammise nel numero delle sue concubine una prostituta che si diceva somigliante in modo impressionante ad Agrippina. Si assicura anche che in passato, ogni volta che andava in lettiga con sua madre, si abbandonava alla sua passione incestuosa e che veniva tradito dalle macchie del suo vestito. Prostituì il suo pudore ad un tal punto che, dopo aver insozzato quasi tutte le parti del suo corpo, ideò alla fine questo nuovo tipo di divertimento: coperto dalla pelle di una bestia feroce, da una gabbia si lanciava sugli organi genitali di uomini e di donne, legati ad un tronco, e, quando
aveva imperversato abbastanza, per finire, si dava in balia del suo liberto Doriforo; da costui si fece anche sposare, come lui aveva sposato Sporo, e arrivò perfino ad imitare i gridi e i gemiti delle vergini che subivano violenza. Ho saputo da molte persone che Nerone era assolutamente convinto che «nessun uomo
fosse pudico e puro in nessuna parte del suo corpo, ma che la maggior parte dissimulava il vizio e lo, copriva con astuzia», e perciò a coloro che gli confessavano apertamente la loro impudicizia perdonava anche ogni altro delitto.
A proposito delle ricchezze e del denaro pensava che non vi era altro motivo di averne se non per sperperarlo, e considerava come sordidi e avari coloro che tenevano nota delle spese, mentre stimava munifici e splendidi quelli che abusavano delle loro sostanze e le dilapidavano. Ammirava ed esaltava suo zio Gaio soprattutto perché in poco tempo aveva fatto fuori le immense
ricchezze lasciate da Tiberio. E così non ebbe misura né nelle sue liberalità né nelle sue spese. Per ricevere Tiridate (la cosa può sembrare quasi incredibile) prelevò dal tesoro ottocentomila sesterzi al giorno, e quando se ne andò gliene diede più di cento milioni. Il citaredo Menecrate e il mirmillone Spicolo ricevettero da lui case e patrimoni di trionfatori. Dopo aver arricchito l'usuraio Panerote Cercopiteco con possedimenti situati in città e in campagna, gli fece funerali quasi regali. Non portò mai due volte lo stesso vestito. Ai dadi giocò fino a quattrocentomila sesterzi per punto e andò a pescare con una rete dorata trattenuta da corde intrecciate di porpora e filo scarlatto. Si dice che non viaggiò mai con meno di mille vetture, con muli ferrati d'argento, con vetturini vestiti
di lana di Canusio e con una schiera di vari corridori coperti di decorazioni e di braccialetti. Ma il denaro lo sperperò soprattutto nelle costruzioni; si fece erigere una casa che andava dal Palatino all'Esquilino, e la battezzò subito «il passaggio» e quando un incendio la distrusse, se la fece ricostruire e la chiamò «Casa d'oro». Per dare un'idea della sua estensione e del suo splendore, sarà sufficiente dire questo: aveva un vestibolo in cui era stata rizzata una statua
colossale di Nerone, alta centoventi piedi; era tanto vasta che la circondava un portico, a tre ordini di colonne, lungo mille passi e vi si trovava anche uno specchio d'acqua simile al mare, sul quale si affacciavano edifici che formavano tante città; per di più vi era un'estensione di campagna dove si vedevano campi coltivati, vigneti, pascoli e foreste, abitate da ogni genere di animali domestici e selvaggi. Nel resto dell'edificio tutto era ricoperto d'oro e rivestito di pietre
preziose e di conchiglie e di perle; i soffitti delle sale da pranzo erano fatti di tavolette d'avorio mobili e percorsi da tubazioni, per poter lanciare sui commensali fiori, oppure profumi. La principale di queste sale era rotonda, e girava continuamente, giorno e notte, su se stessa, come il mondo; nei bagni fluivano le acque
del mare e quelle di Albula. Quando un tale palazzo fu terminato e Nerone lo inaugurò, tutta la sua approvazione si ridusse a dire a che finalmente cominciava ad avere una dimora come si addice ad un uomo». Dopo di che avviava la costruzione di una piscina che si estendeva da Miseno al lago Averno, interamente
coperta e circondata da portici, nella quale dovevano essere condotte tutte le acque termali di Baia; poi intraprendeva la realizzazione di un canale dall'Averno fino a Ostia, che permetteva di portarsi in questa città con imbarcazioni, ma senza navigare sul mare. La lunghezza di questo canale doveva essere di centosessanta miglia e la sua larghezza tale che due navi a cinque ordini di remi potessero navigarvi in senso contrario. Per compiere questi lavori aveva dato disposizioni di trasportare in Italia tutti i detenuti dell'Impero, e di emettere solo condanne ai lavori forzati, anche per i delitti più evidenti. A questa follia di spese lo incitò non solo la fiducia nelle risorse dell'Impero, ma anche l'improvvisa speranza di scoprire immense ricchezze nascoste, secondo le indicazioni di un cavaliere romano che gli garantiva che l'antichissimo tesoro trasportato dalla regina Didone quando fuggi da Tiro, si trovava in Africa, celato dentro
vastissime caverne e che poteva essere estratto con un minimo sforzo. […]
Oltre ad Ottavia, ebbe due altre mogli: prima Poppea Sabina, figlia di un anziano questore, e sposata in precedenza ad un cavaliere romano, poi Statilia Messalina, pronipote di Tauro che fu due volte console e ricevette il trionfo. Per poter sposare quest'ultima fece uccidere suo marito Attico Vestino perfino mentre esercitava il consolato. Si stancò subito di Ottavia e, poiché i suoi amici glielo rimproveravano, egli rispose che «essa doveva accontentarsi delle insegne del matrimonio». In seguito, avendo tentato più volte, senza riuscirvi, di farla strangolare, la ripudiò con il pretesto della sterilità, ma poiché il popolo disapprovava il suo divorzio e non gli risparmiava le sue invettive, la relegò e infine la fece mettere a morte, sotto l'imputazione di adulterio; l'accusa era così impudente e calunniosa che all'istruttoria tutti i testimoni si ostinarono a negare e Nerone dovette costringere a far denuncia il suo pedagogo Aniceto che si accusò, falsamente, di aver abusato di lei con uno stratagemma. Undici giorni dopo il divorzio da Ottavia, Nerone sposò Poppea, che amò più di tutto, e tuttavia uccise anche lei, con un calcio, perché, incinta e malata, lo aveva rimproverato aspramente una sera che era rincasato tardi da una corsa di carri. Da lei
ebbe una figlia, Claudia Augusta che morì ancora bambina. Non vi è nessuna categoria di parenti che fosse al riparo dei suoi delitti. Poiché Antonia, la figlia di Claudio, rifiutava di sposarlo, dopo la morte di Poppea, egli la fece uccidere con il pretesto che fomentava una rivoluzione; allo stesso modo trattò tutte le altre persone che gli erano legate o imparentate in qualche modo; tra gli altri abusò del giovane Aulo Plauzio, prima di mandarlo a morte, poi gli disse: «Venga subito
mia madre e baci il mio successore,» per far capire che Agrippina lo aveva amato e lo aveva spinto a sperare di impossessarsi dell'Impero. Informato che il suo figliastro Rufrio Crispino, figlio di Poppea, ancora fanciullo, si assegnava nei suoi giochi il ruolo di generale, diede incarico ai suoi stessi schiavi di annegarlo nel mare mentre pescava. Mandò in esilio Tusco, figlio della sua nutrice, perché, quando era procuratore d'Egitto si era preso il bagno nelle terme costruite per l'arrivo dell'imperatore. Costrinse il suo precettore Seneca a suicidarsi, benché gli avesse solennemente giurato, quando quello insisteva per ottenere il suo congedo, lasciandogli tutti i suoi beni, che avrebbe preferito morire, piuttosto che fargli del male. A Burro, prefetto del Pretorio, promise un rimedio per la sua gola e gli mandò del veleno. Quanto ai suoi liberti, ricchi e vecchi, che avevano preparato la sua adozione prima e poi il suo principato, ed erano stati i suoi consiglieri, li fece sparire avvelenando ora i loro cibi, ora le loro bevande. […]


mi fermo qui, anche lui non è che fosse così sano di mente
 
Web  Top
view post Posted on 12/10/2010, 19:20

Advanced Member
~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
1,480

Status:


Ahah, è incredibile come la storia ti aiuti a non stupirti quando cose del genere accadono nel presente!
 
Web  Top
view post Posted on 12/10/2010, 19:22
Avatar

Senior Member
~~~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
11,658

Status:


purtroppo... certe abitudine sono sopravvissute per secoli....
 
Web  Top
raffaelemambella
view post Posted on 13/10/2010, 22:08




L'ispirazione filo-senatoria dei due storici principali di Nerone, Tacito e Svetonio, andò, per giunta, a coincidere con la strategia propagandistica di Traiano e della cosiddetta dinastia Antoniniana, che aveva tutto l'interesse a screditare gli imperatori del passato meno recente, soprattutto quelli della dinastia Giulio-Claudia .
I due storici – e altri loro meno illustri colleghi – fecero uno più uno, mettendo la propria indiscutibile abilità retorica al servizio di una riscrittura palesemente faziosa del secolo precedente e delle sue complesse vicende: ed ecco il susseguirsi di accuse infondate, deformazioni dei fatti, morti naturali contrabbandate per efferati delitti, dettagli truculenti o pruriginosi inventati di sana pianta e via calunniando, fino a trasformare in una galleria degli orrori il periodo che coincise con l'affermazione incontrastata dell'Impero.
La loro versione, a dire il vero, conteneva contraddizioni interne evidenti anche al lettore più disattento; alcuni riferimenti isolati, inseriti a mezza bocca per non insospettire chi di dovere, avrebbero permesso di ricavare fra le righe un'immagine assai più realistica dell'accaduto. Ma alla malafede dei senatori si era aggiunta quella dei Cristiani, ancora più intrisa di fanatismo e odio ideologico: per motivi che vedremo, gli autori ispirati dalla nuova fede identificarono in Nerone il loro primo persecutore e questo li indusse ad avallare tutte le accuse a suo carico aggiungendone di proprio pugno.
Si spiega così uno degli aspetti più singolari della “fortuna” di Nerone. Altri imperatori (Tiberio, Caligola, Claudio, Domiziano) finirono senza meritarlo del tutto nel tritacarne della storiografia senatoria, ma gli autori successivi si limitarono ad un'opera di compilazione: trovavano pezze d'appoggio al loro astio nelle pagine di Tacito e Svetonio e trascrivevano il tutto senza l'ombra di un'analisi critica.
A Nerone andò peggio: non paghi delle già pesanti accuse che trovavano nelle fonti, gli autori tardo-antichi utilizzarono l'argomento come una valvola di sfogo per la loro fantasia, aggiungendovi particolari e trasformando voci o ipotesi – beninteso, se utili al loro scopo – in trancianti certezze per renderne sempre più cupa – e più inverosimile, ma di questo non si curavano – la figura. Di qui il paradosso per cui le imputazioni a suo carico diventano sempre più nette, documentate e prive di dubbi man mano che ci si allontana dall'epoca dei fatti: come se la memoria degli eventi, anziché svanire o sfumare nel mito, acquistasse forza e lucidità col passare del tempo.
Agevolata da malafede, pigrizia mentale e scarsa conoscenza del mondo antico, fissata negli occhi e nella mente del pubblico dai falsissimi kolossal hollywoodiani – Quo vadis? in primo luogo – con le loro ricostruzioni storiche inverosimili fino al ridicolo, la leggenda di Nerone-mostro è giunta fino alla cultura media contemporanea e – ciò che è più grave – alla manualistica scolastica, dove tuttora spadroneggia.
Rileggendo i più noti delitti attribuiti a Nerone, si ha, infatti, una sensazione di familiarità, come se si trattasse di un argomento comune, quasi proverbiale e non di un sapere “difficile” o “per pochi” come viene solitamente considerato quello relativo al mondo antico.
Proviamo a ripercorrerli senza troppe pretese, ma con un minimo di spirito critico, per rispondere a una domanda: quanto c'è di vero in tante accuse?



IL QUINQUENNIUM FELIX

Per generazioni di studenti, confrontarsi con questa dicitura è stata una tappa obbligata: nei primi cinque anni di regno Nerone venne affiancato dai saggi precettori Burro e Seneca che si sostituirono di fatto a lui nella guida dell'Impero e ispirarono una politica saggia e bonaria; in seguito, il principe li allontanò ed emerse la sua vera natura, con annessi delitti e sconcezze. Così, almeno, racconta da secoli la storiografia ufficiale.
Per capire se andò davvero in questi termini è utile risalire all'origine della questione. L'espressione “incriminata” ricorre per la prima volta nell'opera di uno storico del periodo tardo-antico, Aurelio Vittore, che riporta un'affermazione di Traiano: a suo dire, il momento più felice vissuto dall'Impero – almeno fino ai suoi tempi – sarebbe coinciso con un breve periodo indicato appunto come Quinquennium Neronis. Ma in quali anni va collocata questa breve e intensa “età dell'oro”?
La risposta corrente è stata, fino a tutto l'Ottocento, quella indicata in apertura, finché alcuni storici hanno voluto vederci chiaro. Ed ecco la sorpresa: il formidabile quinquennio coinciderebbe quasi sicuramente non coi primi (54-58 d.C.), ma con gli ultimi anni del principato neroniano (64-68). Sì, proprio quelli solitamente descritti come il trionfo della follia e della crudeltà. Ma cosa sarebbe accaduto di tanto straordinario da farne un periodo memorabile? Per capirlo bisogna ripercorrere alcune tappe fondamentali del regno di Nerone.
Salito al potere a soli 17 anni, il principe subì inizialmente la tutela della madre Agrippina, ma se ne liberò in fretta, avviando una politica che originariamente intendeva come distensiva nei confronti del Senato, di cui cercava la collaborazione. Ben presto, però, si rese conto che quella strada non era percorribile e svoltò dapprima timidamente, poi con sempre maggiore decisione verso scelte fortemente innovative, che tagliavano fuori l'aristocrazia dal governo dell'Impero: la svolta prese le mosse, per l'appunto, attorno al 58.
L'ottica dei senatori – che poi è la stessa di quasi tutte le fonti antiche, Tacito in primo luogo – è chiara: in rapporto ai loro interessi, quell'anno segnò il passaggio da una fase ad essi favorevole ad una in cui il loro ruolo veniva messo pesantemente in discussione; non sorprende, quindi, che considerassero il cambiamento come un passaggio dal Bene al Male. Ma chi vuole indagare seriamente i fatti non può accontentarsi di una visuale così ristretta e soggettiva.
Libero di prendere l'iniziativa, Nerone varò infatti un programma di riforme socio-economiche e amministrative a tutto campo, diede impulso alle arti e alle scienze, cercò di ammodernare le strutture dell'Impero per adeguarle alla necessità di governare un territorio estesissimo: negli ultimi anni si iniziò a raccogliere i frutti del suo lavoro.
Qualche esempio? Contestualmente alla ricostruzione di Roma dopo l'incendio, venne edificata la grandiosa Domus Aurea, una vastissima residenza imperiale che conteneva un'autentica summa delle conoscenze artistiche dell'epoca: benché sia stata parzialmente interrata dai suoi successori, possiamo ancora coglierne ed intuirne lo splendore.
In “politica estera” inaugurò una modernissima strategia che cercava non la guerra a tutti i costi, ma la definizione di sfere di influenza e rapporti di buon vicinato per raggiungere l'obiettivo di un assetto stabile: vi riuscì coi Parti – una popolazione persiana che occupava un ampio territorio sui confini orientali dell'Impero – stipulando con essi una pace che avrebbe retto per oltre mezzo secolo; altrettanto fece in Britannia dove, ultimata la conquista, venne avviata in grande stile la romanizzazione dell'isola.
Il suo intervento diretto giovò non poco all'economia, che trasse grandi benefici da altri due fattori: l'intensa attività di esplorazione ai margini dei territori imperiali e la realizzazione di opere pubbliche (canali navigabili, in particolare), che agevolarono notevolmente la circolazione delle merci.



L'UCCISIONE DEL FRATELLASTRO

Fra i primi delitti attribuiti a Nerone figura l'assassinio del fratellastro Britannico, che sarebbe avvenuto nel 55 a pochi mesi dall'ascesa al trono: per capire se la causa del decesso fu davvero quella occorre un passo indietro, allo scopo di ricostruire il contesto familiare in cui si svolsero i fatti.
Lucio Domizio Enobarbo – questo il suo nome originario – era nato da un precedente matrimonio di Agrippina con un certo Gneo; in seguito, la madre riuscì a sposare l'imperatore Claudio – che era anche suo zio e aveva già un figlio naturale, vale a dire lo stesso Britannico – grazie a una serie di complessi intrighi di corte e convinse il neo-marito ad adottare il figlio, che – com'era abituale presso i Romani – assunse un nuovo nome basato sulla genealogia del padre putativo. Nell'interminabile onomastica ereditata dalla casata Giulio-Claudia era compreso anche il nominativo di Nerone, col quale sarebbe passato alla storia.
Affiancare un altro pretendente all'erede legittimo – che poi era tale solo in teoria, come vedremo – contribuiva ad alimentare lotte feroci per la successione. E quando, alla morte di Claudio – avvelenato per iniziativa della stessa Agrippina e forse di Seneca –, Nerone venne preferito a Britannico, si capì in breve tempo che il suo potere non era affatto al sicuro: la restituzione del trono usurpato al legittimo successore era un argomento pretestuoso, ma troppo succulento perché i suoi avversari se lo lasciassero sfuggire.
Arriviamo, così, agli ultimi giorni di Britannico. Stando al racconto di Svetonio e a quello, assai più dettagliato, di Tacito, il movente del delitto andava ricercato proprio nella necessità di puntellare un trono non particolarmente solido: le minacce di Agrippina, pronta a punire la scarsa ubbidienza del figlio appoggiando il suo rivale, e alcune aperte manifestazioni di simpatia nei confronti di quest'ultimo avrebbero convinto Nerone che occorreva sbarazzarsi in tempo di quel detestato e pericolosissimo concorrente.
Secondo Tacito, l'imperatore diede ordine di preparare un veleno dall'effetto immediato e di somministrarlo al fratellastro durante un banchetto di corte: la pozione sortì i risultati sperati, che Nerone attribuì ad un attacco di epilessia cui Britannico andava frequentemente soggetto, ma tutti i presenti presero a fissarlo, riconoscendo con nitidezza in quella scena le responsabilità del colpevole e il presagio dei suoi futuri crimini.
Una descrizione di raro fascino, in linea con l'inimitabile scrittura di Tacito; ma, svanito il piacere letterario, occorre analizzare il racconto per comprendere se sia anche attendibile. E qui, già a una prima lettura, i conti non tornano.
Tanto per cominciare, le fonti concordano sul fatto che il veleno, per dirla con Tacito, “si diffuse in tutte le membra, al punto da togliergli insieme la parola e la vita”: peccato che i Romani non conoscessero veleni fulminanti. Sostanze del genere, ad esempio il curaro, erano in uso a quei tempi presso popolazioni del continente americano, con cui Roma non aveva naturalmente contatti, mentre l'Europa occidentale ebbe a disposizione qualcosa di simile solo nel 1872 con la scoperta del cianuro.
Un dettaglio tecnico inconfutabile, cui si aggiungono altre considerazioni. A parte l'assurdità di un delitto commesso così platealmente e alla presenza di parecchi testimoni, pochi mesi prima a Nerone era stata presentata una denuncia a carico di tale Giulio Denso, un cavaliere accusato non solo di aperte simpatie verso Britannico, ma di attivismo politico a suo favore. L’imperatore non diede neppure corso al processo in questione, che gli offriva su un piatto d'argento una copertura legale per le sue manovre: possibile che abbia cambiato completamente idea – e perso la testa, per dirla tutta – nel giro di qualche settimana?
Anche il movente indicato non convince affatto. Agrippina aveva dato fondo al suo repertorio, non disdegnando calunnie, omicidi e quant'altro, per portare Nerone sul trono e, tramite lui, mettere le mani sul potere: l'“assedio” a Claudio per ottenere il suo assenso al matrimonio – fra le altre cose, apertamente incestuoso –, l'uccisione dello stesso imperatore, la fittissima rete di intrighi e colpi bassi con potentissimi funzionari di corte non erano altro che le tappe di un complesso disegno messo in atto per spianare la strada al “suo” candidato a tutto danno di Britannico. Credere che quest'ultimo fosse disposto ad accettarla come alleata, stendendo un velo sulle sue passate malefatte, appartiene a pieno titolo alla fantastoria.
Ma il dato di fondo da cui partire è un altro: Britannico non aveva alcuna precedenza nella successione al trono. Alla morte di un imperatore, infatti, il potere non passava direttamente al primogenito – come avviene solitamente nelle monarchie – ma, in mancanza di indicazioni precise del precedente Cesare, il successore emergeva da un numero assai ampio di pretendenti, ai quali era richiesta unicamente una parentela, anche non immediata, con Augusto; beninteso, il legame genealogico col fondatore dell'impero poteva risalire indifferentemente al ramo paterno o a quello materno.
In più, bisogna considerare che nel diritto romano i figli adottivi erano pienamente equiparati a quelli naturali; Nerone era dunque figlio a pieno titolo di Claudio e vantava, grazie all'ascendenza di Agrippina, quarti di nobiltà di prim'ordine. Sul piano dinastico, insomma, la sua candidatura era al di sopra di ogni sospetto: l'abitudine di additarlo come usurpatore, assai diffusa fra i suoi detrattori, non aveva alcun fondamento.
Come morì, allora, Britannico? Impossibile stabilirlo con certezza, ma le circostanze del decesso, del tutto inadatte ad un “delitto perfetto”, costituiscono un alibi di ferro per qualunque sospettato, non solo per Nerone. A questo punto, si può tentare di seguire un'altra pista.
Britannico non godeva affatto di buona salute, soffriva di epilessia, non aveva mai mostrato una costituzione sufficientemente robusta e in molti dubitavano che potesse vivere a lungo: proprio tali considerazioni avevano convinto Claudio ad adottare Nerone per affiancare una “carta di riserva” al suo unico figlio maschio. E la descrizione della sua morte – per quanto imprecisa e difficile da confrontare con la moderna sintomatologia – ricorda da vicino gli esiti di un aneurisma, che può accompagnare le crisi epilettiche e portare a una morte pressoché istantanea.
Se si considera che altre fonti dell'epoca attribuiscono a Nerone una serie di delitti, ma senza far cenno all'uccisione di Britannico, è possibile che Tacito e Svetonio abbiano mentito consapevolmente, cogliendo al volo l'opportunità offerta da una tragica fatalità per inventarsi un crimine odioso allo scopo di colpire un nemico politico. Almeno da questo punto di vista, si direbbe che in venti secoli di storia sia cambiato ben poco.






L'UCCISIONE DI POPPEA

Nello sterminato elenco dei crimini attribuiti a Nerone figurano anche due uxoricidi: sia Ottavia che Poppea sarebbero morte per mano dell'illustre marito. Nulla da dire sulla prima: per poter sposare l'altra, l'imperatore la ripudiò con accuse false e mal congegnate, creando un forte malcontento popolare, e in un secondo momento ne ordinò l'uccisione. Ma Poppea?
Di lei rimane un'immagine alquanto sfocata: bella, bionda, colta, affascinata dall'Oriente, molto superstiziosa, amatissima da Nerone; il resto, a partire dal suo temperamento che alcuni descrivono come dissoluto e crudele, altri con toni decisamente meno negativi, appartiene al mondo dell'opinabile per gli antichi e dell'indimostrabile per noi. Ma non è questo il punto: ciò che ci interessa è cercare di capire se davvero la sua morte sia dovuta a un omicidio più o meno intenzionale.
Sulle modalità del fatto le fonti concordano: in un impeto d'ira, Nerone l'avrebbe colpita con un calcio al ventre mentre era in attesa di un figlio, causandone la morte; Svetonio aggiunge il motivo del litigio sfociato in tragedia: Poppea “lo aveva rimproverato aspramente per essere tornato tardi da una corsa di carri”. Ma la testimonianza non convince.
Innanzitutto, il legame fra Nerone e Poppea andava molto al di là dell'aspetto sentimentale, che pure non sembra affatto estraneo alla vicenda: per lei l'imperatore si era impelagato nella delicatissima procedura del ripudio di Ottavia, dal quale era uscito con un delitto “scomodo” e un forte, anche se momentaneo, calo di popolarità; per lei aveva rischiato di perdere il favore della plebe e, forse, addirittura il trono; da lei attendeva l'erede che, dandogli una continuità dinastica, lo avrebbe definitivamente legittimato alla guida dell'Impero.
È credibile che Nerone, seppure in un momento di follia, si sia macchiato di un atto inconsulto che lo danneggiava così pesantemente sia sul piano politico che su quello umano? Francamente sembra davvero troppo, a meno di non vedere nel gesto una vena di autolesionismo di cui, però, non c'è traccia neppure nell'interminabile elenco di pazzie e tare psichiche attribuitegli dalla tradizione.
Anche la descrizione del suo stato d'animo, per quanto vada presa con estrema cautela, sembra andare in direzione opposta all'ipotesi dell'omicidio: Nerone, nelle parole di Tacito, appare affranto, travolto da un dolore senza freno, disposto a qualunque stravaganza per celebrare la memoria dell'amata. Sarà un caso, ma la sua reazione ai delitti effettivamente commessi – ad esempio l'uccisione della madre Agrippina – appariva caratterizzata da un'inquietudine ben diversa e, tutt'al più, dai rimorsi.
Come morì, allora, la donna che Nerone “amò più di ogni altra cosa”, come ricorda Svetonio? La risposta potrebbe trovarsi in una preziosa annotazione che lo stesso storico inserisce quasi furtivamente nel suo racconto: al momento del decesso, Poppea era debilitata non solo dalla gravidanza, ma anche da una malattia.
Chissà, forse persino l'autore era convinto che si fosse trattato di una morte per cause naturali ed escogitò una sorta di scrittura “a chiave”: in superficie la versione ufficiale contraria a Nerone, ma con un dettaglio “dimenticato” quasi casualmente che avrebbe potuto suggerire a chi voleva intendere una diversa interpretazione dell'accaduto. Una sorta di “indizio in codice” che ben pochi hanno saputo – o voluto? – capire.



L'INCENDIO DI ROMA

Nerone, mentre contemplava l'incendio dalla Torre di Mecenate, “allietato – sono le sue parole – dalla bellezza delle fiamme”, cantò La distruzione di Troia indossando il suo abito di scena.

Nelle parole di Svetonio viene dipinta un'immagine destinata ad attraversare i secoli: quella dell'imperatore che ordina di appiccare il fuoco ai quartieri più poveri dell'Urbe e, scoppiato l'incendio, ne trae ispirazione per il grande artista che credeva di essere.
Perché tanta follia? Per cancellare quel vespaio di viuzze e casupole che offendeva il suo senso estetico, per fare spazio alla futura Domus Aurea, per “replicare” la fine di Troia, divorata dalle fiamme, e cantarla in versi come Omero nei suoi poemi: le fonti forniscono diverse ipotesi, ma concordano sulla criminale megalomania di Nerone, cui andrebbe attribuita quella catastrofe.
Le cose, in realtà andarono diversamente, a cominciare dall'origine dell'incendio. Fatti del genere erano quasi abituali nelle città antiche, i cui rioni popolari pullulavano di abitazioni ammassate, spesso costruite in legno e senza acqua corrente: bastava usare con troppa imprudenza un braciere o una torcia per scatenare l'inferno.
Non sempre, sia chiaro, il disastro raggiungeva proporzioni così spaventose, ma anche qui non occorre scomodare piromani e imperatori folli: il forte vento, la situazione climatica (si era in piena estate), la massiccia presenza di magazzini stipati di merce infiammabile, l'eccezionale densità di popolazione spiegano ampiamente come il fuoco sia divenuto tanto inarrestabile da divorare interi quartieri.
Del resto, anche le parole degli storici antichi – gli stessi che sembrerebbero addebitargli le infamanti accuse – rendono conto di una situazione del tutto differente: a detta di Tacito, Nerone sarebbe stato avvistato “mentre correva nel palazzo in preda alle fiamme, qua e là, di notte e senza scorta”.
Nulla di sorprendente, anzi: il panico creato dalla tragedia, le diffuse superstizioni, che l'avrebbero trasformato agli occhi della plebe in una sorta di “iettatore”, la mazzata sulle finanze statali, tutto andava contro gli interessi e la popolarità dell'Imperatore; il quale, peraltro, allo scoppio dell'incendio non si trovava neppure a Roma, ma nella città natale di Anzio.
A chiunque sarebbe passata la voglia di cantare e, infatti, Nerone fece tutt'altro: mise giardini e monumenti a disposizione degli sfollati per una prima accoglienza, si adoperò in prima persona per far giungere sul posto generi di prima necessità, impose un prezzo “politico” per il grano, che costituiva la base dell'alimentazione.
Dopo giorni di lotta, le fiamme furono domate, ma si lasciarono alle spalle l'apocalittico bilancio di oltre 4.000 abitazioni incenerite; e si trattava per lo più di insulae, residenze malsicure e sovraffollate in cui possiamo immaginare le antenate dei “casermoni” che oggi deturpano le periferie più disastrate. In cifre, ad essere rimasti senza tetto erano decine di migliaia di persone: un numero impressionante se si calcola che Roma viaggiava sul milione di abitanti mentre l'Italia di allora non superava i 7 milioni e mezzo.
E qui Nerone diede il meglio di sé, ricostruendo i quartieri distrutti con criteri urbanistici moderni e razionali: strade interne più larghe, spazi ampi fra i singoli edifici, limitazione dell'altezza di questi ultimi, cui si dovevano – come se non bastassero le fiamme – ripetuti crolli.
Sotto Nerone l'Urbe divenne una città molto più bella e sicura, catastrofi come quella descritta non si ripeterono e la frequenza degli incendi calò sensibilmente: per rimettere a ferro e fuoco la “sua” Roma ci sarebbero voluti Alarico e i Visigoti.




LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI

Collegata alla vicenda appena descritta, vi è un'altra accusa che ha marchiato a fuoco – è proprio il caso di dirlo – l'immagine di Nerone: quella di aver avviato le persecuzioni contro i Cristiani.
Soprattutto da Quo Vadis? in poi, è storia nota praticamente a tutti: dopo aver incendiato Roma, Nerone si nascose dietro un capro espiatorio incolpando i seguaci di Cristo e li additò alla rabbia popolare condannandoli a pene atroci; ed ecco legioni di innocenti dati in pasto alle belve, crocifissi, arsi dalle fiamme. L'imperatore aveva, per così dire, preso due piccioni con una fava: aveva trovato un colpevole su cui scaricare le proprie responsabilità e colto al volo l'occasione per colpire una fede che la sua natura malvagia lo portava a detestare.
Questa è la versione raccontata per secoli con dovizia di particolari e invettive. Procediamo per punti a una rilettura dei fatti. Innanzitutto, le accuse di Nerone erano totalmente false? In molti ne dubitano: la base sociale del Cristianesimo era costituita da poveri ed emarginati fortemente inclini all'esasperazione e alla violenza, che vedevano nella nuova fede la punizione divina contro il mondo corrotto e immorale e il riscatto degli umili.
Del resto, Dio non aveva forse colpito col suo fuoco sacro la peccaminosa e godereccia Sodoma? Per i più fanatici – e non erano pochi –, il passo dall'attesa dell'intervento divino all'azione diretta non era poi così lungo: e in entrambi i casi l'obiettivo numero uno sarebbe stato proprio Roma, come molti di loro affermavano spavaldamente.
L'ipotesi più verosimile rimane, comunque, che l'incendio sia scoppiato casualmente: ma neppure questo assolve i Cristiani. Sarebbero da identificare quasi certamente in loro i loschi individui descritti da Tacito: “Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco gridando che questo era l'ordine ricevuto, sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell'ordine fosse reale”.
In sostanza, i più esaltati colsero nell'incendio una manifestazione della potenza divina e si affrettarono a sostenerne la potenza distruttrice ritenendolo un atto di devozione: in questo consisterebbe l'“ordine ricevuto” di cui si parla nel passo citato.
I Cristiani furono processati per il comportamento in questione: l'accusa di aver appiccato per primi il fuoco non venne formulata, mentre la loro fede non fu neppure chiamata in causa. Si trattò di un processo di diritto comune, senza implicazioni politiche o religiose: ma su questo ritorneremo.
Prima è importante una precisazione riguardo alle pene, che a noi appaiono orribili, ma che all'epoca erano del tutto abituali: nei confronti dei Cristiani venne applicata la legislazione corrente, senza accanimento o sadismo di alcun genere. Per essere chiari, i colpevoli furono puniti non in quanto Cristiani, ma in quanto semplici violatori della legge: se gli accusati fossero stati Romani, Greci o appartenenti a qualunque etnia o religione l'esito del processo non sarebbe cambiato di una virgola.
Del resto, la loro colpa non era grave: era gravissima. Abbiamo già visto come, a causa delle condizioni di vita, gli incendi rappresentassero la sciagura più temuta dal popolo e dalle autorità: nulla di strano, quindi, che la figura del piromane – e chi agevolava l'espandersi delle fiamme di fatto lo era – fosse circondata come nessun'altra da odio e panico, percepita come una via di mezzo fra un untore e un terrorista, per dirla con termini più vicini alla nostra epoca. E nulla di strano che anche la legge prevedesse al riguardo il massimo della pena.
Alcuni “innocentisti” insistono sull'antipatia popolare verso i Cristiani, che avrebbe incoraggiato Nerone a sfogare su di loro la rabbia della plebe. Ma ciò non stupisce, poiché i discepoli di Pietro e Paolo, con la loro condotta perennemente rivoltosa, provocatoria e violenta, non potevano aspettarsi nulla di diverso.
Perché, allora, Nerone venne raffigurato come responsabile di persecuzioni? Un equivoco? Qualcosa di peggio, si direbbe. Lo scrittore cristiano Tertulliano gli attribuì addirittura il cosiddetto Institutum Neronianum, una legge che avrebbe affermato esplicitamente “non licet esse vos”, non è lecito essere ciò che siete. Un attacco diretto alla fede in quanto tale, dunque: peccato che nessun autore e nessun codice riportino il benché minimo cenno ad esso, documentando con certezza che si tratta di un falso fabbricato ad arte.
La spiegazione è tanto semplice quanto inquietante: persino gli storici cristiani erano convinti che il comportamento dei loro correligionari non fosse al di sopra di ogni sospetto e, per coprire i troppi dubbi, avrebbero spostato altrove la causa dei processi a loro carico.

 
Top
view post Posted on 13/10/2010, 22:47

Advanced Member
~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
1,480

Status:


CITAZIONE (raffaelemambella @ 13/10/2010, 23:08)
L'ispirazione filo-senatoria dei due storici principali di Nerone, Tacito e Svetonio, andò, per giunta, a coincidere con la strategia propagandistica di Traiano e della cosiddetta dinastia Antoniniana, che aveva tutto l'interesse a screditare gli imperatori del passato meno recente, soprattutto quelli della dinastia Giulio-Claudia .
I due storici – e altri loro meno illustri colleghi – fecero uno più uno, mettendo la propria indiscutibile abilità retorica al servizio di una riscrittura palesemente faziosa del secolo precedente e delle sue complesse vicende: ed ecco il susseguirsi di accuse infondate, deformazioni dei fatti, morti naturali contrabbandate per efferati delitti, dettagli truculenti o pruriginosi inventati di sana pianta e via calunniando, fino a trasformare in una galleria degli orrori il periodo che coincise con l'affermazione incontrastata dell'Impero.
La loro versione, a dire il vero, conteneva contraddizioni interne evidenti anche al lettore più disattento; alcuni riferimenti isolati, inseriti a mezza bocca per non insospettire chi di dovere, avrebbero permesso di ricavare fra le righe un'immagine assai più realistica dell'accaduto. Ma alla malafede dei senatori si era aggiunta quella dei Cristiani, ancora più intrisa di fanatismo e odio ideologico: per motivi che vedremo, gli autori ispirati dalla nuova fede identificarono in Nerone il loro primo persecutore e questo li indusse ad avallare tutte le accuse a suo carico aggiungendone di proprio pugno.
Si spiega così uno degli aspetti più singolari della “fortuna” di Nerone. Altri imperatori (Tiberio, Caligola, Claudio, Domiziano) finirono senza meritarlo del tutto nel tritacarne della storiografia senatoria, ma gli autori successivi si limitarono ad un'opera di compilazione: trovavano pezze d'appoggio al loro astio nelle pagine di Tacito e Svetonio e trascrivevano il tutto senza l'ombra di un'analisi critica.
A Nerone andò peggio: non paghi delle già pesanti accuse che trovavano nelle fonti, gli autori tardo-antichi utilizzarono l'argomento come una valvola di sfogo per la loro fantasia, aggiungendovi particolari e trasformando voci o ipotesi – beninteso, se utili al loro scopo – in trancianti certezze per renderne sempre più cupa – e più inverosimile, ma di questo non si curavano – la figura. Di qui il paradosso per cui le imputazioni a suo carico diventano sempre più nette, documentate e prive di dubbi man mano che ci si allontana dall'epoca dei fatti: come se la memoria degli eventi, anziché svanire o sfumare nel mito, acquistasse forza e lucidità col passare del tempo.
Agevolata da malafede, pigrizia mentale e scarsa conoscenza del mondo antico, fissata negli occhi e nella mente del pubblico dai falsissimi kolossal hollywoodiani – Quo vadis? in primo luogo – con le loro ricostruzioni storiche inverosimili fino al ridicolo, la leggenda di Nerone-mostro è giunta fino alla cultura media contemporanea e – ciò che è più grave – alla manualistica scolastica, dove tuttora spadroneggia.
Rileggendo i più noti delitti attribuiti a Nerone, si ha, infatti, una sensazione di familiarità, come se si trattasse di un argomento comune, quasi proverbiale e non di un sapere “difficile” o “per pochi” come viene solitamente considerato quello relativo al mondo antico.
Proviamo a ripercorrerli senza troppe pretese, ma con un minimo di spirito critico, per rispondere a una domanda: quanto c'è di vero in tante accuse?



IL QUINQUENNIUM FELIX

Per generazioni di studenti, confrontarsi con questa dicitura è stata una tappa obbligata: nei primi cinque anni di regno Nerone venne affiancato dai saggi precettori Burro e Seneca che si sostituirono di fatto a lui nella guida dell'Impero e ispirarono una politica saggia e bonaria; in seguito, il principe li allontanò ed emerse la sua vera natura, con annessi delitti e sconcezze. Così, almeno, racconta da secoli la storiografia ufficiale.
Per capire se andò davvero in questi termini è utile risalire all'origine della questione. L'espressione “incriminata” ricorre per la prima volta nell'opera di uno storico del periodo tardo-antico, Aurelio Vittore, che riporta un'affermazione di Traiano: a suo dire, il momento più felice vissuto dall'Impero – almeno fino ai suoi tempi – sarebbe coinciso con un breve periodo indicato appunto come Quinquennium Neronis. Ma in quali anni va collocata questa breve e intensa “età dell'oro”?
La risposta corrente è stata, fino a tutto l'Ottocento, quella indicata in apertura, finché alcuni storici hanno voluto vederci chiaro. Ed ecco la sorpresa: il formidabile quinquennio coinciderebbe quasi sicuramente non coi primi (54-58 d.C.), ma con gli ultimi anni del principato neroniano (64-68). Sì, proprio quelli solitamente descritti come il trionfo della follia e della crudeltà. Ma cosa sarebbe accaduto di tanto straordinario da farne un periodo memorabile? Per capirlo bisogna ripercorrere alcune tappe fondamentali del regno di Nerone.
Salito al potere a soli 17 anni, il principe subì inizialmente la tutela della madre Agrippina, ma se ne liberò in fretta, avviando una politica che originariamente intendeva come distensiva nei confronti del Senato, di cui cercava la collaborazione. Ben presto, però, si rese conto che quella strada non era percorribile e svoltò dapprima timidamente, poi con sempre maggiore decisione verso scelte fortemente innovative, che tagliavano fuori l'aristocrazia dal governo dell'Impero: la svolta prese le mosse, per l'appunto, attorno al 58.
L'ottica dei senatori – che poi è la stessa di quasi tutte le fonti antiche, Tacito in primo luogo – è chiara: in rapporto ai loro interessi, quell'anno segnò il passaggio da una fase ad essi favorevole ad una in cui il loro ruolo veniva messo pesantemente in discussione; non sorprende, quindi, che considerassero il cambiamento come un passaggio dal Bene al Male. Ma chi vuole indagare seriamente i fatti non può accontentarsi di una visuale così ristretta e soggettiva.
Libero di prendere l'iniziativa, Nerone varò infatti un programma di riforme socio-economiche e amministrative a tutto campo, diede impulso alle arti e alle scienze, cercò di ammodernare le strutture dell'Impero per adeguarle alla necessità di governare un territorio estesissimo: negli ultimi anni si iniziò a raccogliere i frutti del suo lavoro.
Qualche esempio? Contestualmente alla ricostruzione di Roma dopo l'incendio, venne edificata la grandiosa Domus Aurea, una vastissima residenza imperiale che conteneva un'autentica summa delle conoscenze artistiche dell'epoca: benché sia stata parzialmente interrata dai suoi successori, possiamo ancora coglierne ed intuirne lo splendore.
In “politica estera” inaugurò una modernissima strategia che cercava non la guerra a tutti i costi, ma la definizione di sfere di influenza e rapporti di buon vicinato per raggiungere l'obiettivo di un assetto stabile: vi riuscì coi Parti – una popolazione persiana che occupava un ampio territorio sui confini orientali dell'Impero – stipulando con essi una pace che avrebbe retto per oltre mezzo secolo; altrettanto fece in Britannia dove, ultimata la conquista, venne avviata in grande stile la romanizzazione dell'isola.
Il suo intervento diretto giovò non poco all'economia, che trasse grandi benefici da altri due fattori: l'intensa attività di esplorazione ai margini dei territori imperiali e la realizzazione di opere pubbliche (canali navigabili, in particolare), che agevolarono notevolmente la circolazione delle merci.



L'UCCISIONE DEL FRATELLASTRO

Fra i primi delitti attribuiti a Nerone figura l'assassinio del fratellastro Britannico, che sarebbe avvenuto nel 55 a pochi mesi dall'ascesa al trono: per capire se la causa del decesso fu davvero quella occorre un passo indietro, allo scopo di ricostruire il contesto familiare in cui si svolsero i fatti.
Lucio Domizio Enobarbo – questo il suo nome originario – era nato da un precedente matrimonio di Agrippina con un certo Gneo; in seguito, la madre riuscì a sposare l'imperatore Claudio – che era anche suo zio e aveva già un figlio naturale, vale a dire lo stesso Britannico – grazie a una serie di complessi intrighi di corte e convinse il neo-marito ad adottare il figlio, che – com'era abituale presso i Romani – assunse un nuovo nome basato sulla genealogia del padre putativo. Nell'interminabile onomastica ereditata dalla casata Giulio-Claudia era compreso anche il nominativo di Nerone, col quale sarebbe passato alla storia.
Affiancare un altro pretendente all'erede legittimo – che poi era tale solo in teoria, come vedremo – contribuiva ad alimentare lotte feroci per la successione. E quando, alla morte di Claudio – avvelenato per iniziativa della stessa Agrippina e forse di Seneca –, Nerone venne preferito a Britannico, si capì in breve tempo che il suo potere non era affatto al sicuro: la restituzione del trono usurpato al legittimo successore era un argomento pretestuoso, ma troppo succulento perché i suoi avversari se lo lasciassero sfuggire.
Arriviamo, così, agli ultimi giorni di Britannico. Stando al racconto di Svetonio e a quello, assai più dettagliato, di Tacito, il movente del delitto andava ricercato proprio nella necessità di puntellare un trono non particolarmente solido: le minacce di Agrippina, pronta a punire la scarsa ubbidienza del figlio appoggiando il suo rivale, e alcune aperte manifestazioni di simpatia nei confronti di quest'ultimo avrebbero convinto Nerone che occorreva sbarazzarsi in tempo di quel detestato e pericolosissimo concorrente.
Secondo Tacito, l'imperatore diede ordine di preparare un veleno dall'effetto immediato e di somministrarlo al fratellastro durante un banchetto di corte: la pozione sortì i risultati sperati, che Nerone attribuì ad un attacco di epilessia cui Britannico andava frequentemente soggetto, ma tutti i presenti presero a fissarlo, riconoscendo con nitidezza in quella scena le responsabilità del colpevole e il presagio dei suoi futuri crimini.
Una descrizione di raro fascino, in linea con l'inimitabile scrittura di Tacito; ma, svanito il piacere letterario, occorre analizzare il racconto per comprendere se sia anche attendibile. E qui, già a una prima lettura, i conti non tornano.
Tanto per cominciare, le fonti concordano sul fatto che il veleno, per dirla con Tacito, “si diffuse in tutte le membra, al punto da togliergli insieme la parola e la vita”: peccato che i Romani non conoscessero veleni fulminanti. Sostanze del genere, ad esempio il curaro, erano in uso a quei tempi presso popolazioni del continente americano, con cui Roma non aveva naturalmente contatti, mentre l'Europa occidentale ebbe a disposizione qualcosa di simile solo nel 1872 con la scoperta del cianuro.
Un dettaglio tecnico inconfutabile, cui si aggiungono altre considerazioni. A parte l'assurdità di un delitto commesso così platealmente e alla presenza di parecchi testimoni, pochi mesi prima a Nerone era stata presentata una denuncia a carico di tale Giulio Denso, un cavaliere accusato non solo di aperte simpatie verso Britannico, ma di attivismo politico a suo favore. L’imperatore non diede neppure corso al processo in questione, che gli offriva su un piatto d'argento una copertura legale per le sue manovre: possibile che abbia cambiato completamente idea – e perso la testa, per dirla tutta – nel giro di qualche settimana?
Anche il movente indicato non convince affatto. Agrippina aveva dato fondo al suo repertorio, non disdegnando calunnie, omicidi e quant'altro, per portare Nerone sul trono e, tramite lui, mettere le mani sul potere: l'“assedio” a Claudio per ottenere il suo assenso al matrimonio – fra le altre cose, apertamente incestuoso –, l'uccisione dello stesso imperatore, la fittissima rete di intrighi e colpi bassi con potentissimi funzionari di corte non erano altro che le tappe di un complesso disegno messo in atto per spianare la strada al “suo” candidato a tutto danno di Britannico. Credere che quest'ultimo fosse disposto ad accettarla come alleata, stendendo un velo sulle sue passate malefatte, appartiene a pieno titolo alla fantastoria.
Ma il dato di fondo da cui partire è un altro: Britannico non aveva alcuna precedenza nella successione al trono. Alla morte di un imperatore, infatti, il potere non passava direttamente al primogenito – come avviene solitamente nelle monarchie – ma, in mancanza di indicazioni precise del precedente Cesare, il successore emergeva da un numero assai ampio di pretendenti, ai quali era richiesta unicamente una parentela, anche non immediata, con Augusto; beninteso, il legame genealogico col fondatore dell'impero poteva risalire indifferentemente al ramo paterno o a quello materno.
In più, bisogna considerare che nel diritto romano i figli adottivi erano pienamente equiparati a quelli naturali; Nerone era dunque figlio a pieno titolo di Claudio e vantava, grazie all'ascendenza di Agrippina, quarti di nobiltà di prim'ordine. Sul piano dinastico, insomma, la sua candidatura era al di sopra di ogni sospetto: l'abitudine di additarlo come usurpatore, assai diffusa fra i suoi detrattori, non aveva alcun fondamento.
Come morì, allora, Britannico? Impossibile stabilirlo con certezza, ma le circostanze del decesso, del tutto inadatte ad un “delitto perfetto”, costituiscono un alibi di ferro per qualunque sospettato, non solo per Nerone. A questo punto, si può tentare di seguire un'altra pista.
Britannico non godeva affatto di buona salute, soffriva di epilessia, non aveva mai mostrato una costituzione sufficientemente robusta e in molti dubitavano che potesse vivere a lungo: proprio tali considerazioni avevano convinto Claudio ad adottare Nerone per affiancare una “carta di riserva” al suo unico figlio maschio. E la descrizione della sua morte – per quanto imprecisa e difficile da confrontare con la moderna sintomatologia – ricorda da vicino gli esiti di un aneurisma, che può accompagnare le crisi epilettiche e portare a una morte pressoché istantanea.
Se si considera che altre fonti dell'epoca attribuiscono a Nerone una serie di delitti, ma senza far cenno all'uccisione di Britannico, è possibile che Tacito e Svetonio abbiano mentito consapevolmente, cogliendo al volo l'opportunità offerta da una tragica fatalità per inventarsi un crimine odioso allo scopo di colpire un nemico politico. Almeno da questo punto di vista, si direbbe che in venti secoli di storia sia cambiato ben poco.






L'UCCISIONE DI POPPEA

Nello sterminato elenco dei crimini attribuiti a Nerone figurano anche due uxoricidi: sia Ottavia che Poppea sarebbero morte per mano dell'illustre marito. Nulla da dire sulla prima: per poter sposare l'altra, l'imperatore la ripudiò con accuse false e mal congegnate, creando un forte malcontento popolare, e in un secondo momento ne ordinò l'uccisione. Ma Poppea?
Di lei rimane un'immagine alquanto sfocata: bella, bionda, colta, affascinata dall'Oriente, molto superstiziosa, amatissima da Nerone; il resto, a partire dal suo temperamento che alcuni descrivono come dissoluto e crudele, altri con toni decisamente meno negativi, appartiene al mondo dell'opinabile per gli antichi e dell'indimostrabile per noi. Ma non è questo il punto: ciò che ci interessa è cercare di capire se davvero la sua morte sia dovuta a un omicidio più o meno intenzionale.
Sulle modalità del fatto le fonti concordano: in un impeto d'ira, Nerone l'avrebbe colpita con un calcio al ventre mentre era in attesa di un figlio, causandone la morte; Svetonio aggiunge il motivo del litigio sfociato in tragedia: Poppea “lo aveva rimproverato aspramente per essere tornato tardi da una corsa di carri”. Ma la testimonianza non convince.
Innanzitutto, il legame fra Nerone e Poppea andava molto al di là dell'aspetto sentimentale, che pure non sembra affatto estraneo alla vicenda: per lei l'imperatore si era impelagato nella delicatissima procedura del ripudio di Ottavia, dal quale era uscito con un delitto “scomodo” e un forte, anche se momentaneo, calo di popolarità; per lei aveva rischiato di perdere il favore della plebe e, forse, addirittura il trono; da lei attendeva l'erede che, dandogli una continuità dinastica, lo avrebbe definitivamente legittimato alla guida dell'Impero.
È credibile che Nerone, seppure in un momento di follia, si sia macchiato di un atto inconsulto che lo danneggiava così pesantemente sia sul piano politico che su quello umano? Francamente sembra davvero troppo, a meno di non vedere nel gesto una vena di autolesionismo di cui, però, non c'è traccia neppure nell'interminabile elenco di pazzie e tare psichiche attribuitegli dalla tradizione.
Anche la descrizione del suo stato d'animo, per quanto vada presa con estrema cautela, sembra andare in direzione opposta all'ipotesi dell'omicidio: Nerone, nelle parole di Tacito, appare affranto, travolto da un dolore senza freno, disposto a qualunque stravaganza per celebrare la memoria dell'amata. Sarà un caso, ma la sua reazione ai delitti effettivamente commessi – ad esempio l'uccisione della madre Agrippina – appariva caratterizzata da un'inquietudine ben diversa e, tutt'al più, dai rimorsi.
Come morì, allora, la donna che Nerone “amò più di ogni altra cosa”, come ricorda Svetonio? La risposta potrebbe trovarsi in una preziosa annotazione che lo stesso storico inserisce quasi furtivamente nel suo racconto: al momento del decesso, Poppea era debilitata non solo dalla gravidanza, ma anche da una malattia.
Chissà, forse persino l'autore era convinto che si fosse trattato di una morte per cause naturali ed escogitò una sorta di scrittura “a chiave”: in superficie la versione ufficiale contraria a Nerone, ma con un dettaglio “dimenticato” quasi casualmente che avrebbe potuto suggerire a chi voleva intendere una diversa interpretazione dell'accaduto. Una sorta di “indizio in codice” che ben pochi hanno saputo – o voluto? – capire.



L'INCENDIO DI ROMA

Nerone, mentre contemplava l'incendio dalla Torre di Mecenate, “allietato – sono le sue parole – dalla bellezza delle fiamme”, cantò La distruzione di Troia indossando il suo abito di scena.

Nelle parole di Svetonio viene dipinta un'immagine destinata ad attraversare i secoli: quella dell'imperatore che ordina di appiccare il fuoco ai quartieri più poveri dell'Urbe e, scoppiato l'incendio, ne trae ispirazione per il grande artista che credeva di essere.
Perché tanta follia? Per cancellare quel vespaio di viuzze e casupole che offendeva il suo senso estetico, per fare spazio alla futura Domus Aurea, per “replicare” la fine di Troia, divorata dalle fiamme, e cantarla in versi come Omero nei suoi poemi: le fonti forniscono diverse ipotesi, ma concordano sulla criminale megalomania di Nerone, cui andrebbe attribuita quella catastrofe.
Le cose, in realtà andarono diversamente, a cominciare dall'origine dell'incendio. Fatti del genere erano quasi abituali nelle città antiche, i cui rioni popolari pullulavano di abitazioni ammassate, spesso costruite in legno e senza acqua corrente: bastava usare con troppa imprudenza un braciere o una torcia per scatenare l'inferno.
Non sempre, sia chiaro, il disastro raggiungeva proporzioni così spaventose, ma anche qui non occorre scomodare piromani e imperatori folli: il forte vento, la situazione climatica (si era in piena estate), la massiccia presenza di magazzini stipati di merce infiammabile, l'eccezionale densità di popolazione spiegano ampiamente come il fuoco sia divenuto tanto inarrestabile da divorare interi quartieri.
Del resto, anche le parole degli storici antichi – gli stessi che sembrerebbero addebitargli le infamanti accuse – rendono conto di una situazione del tutto differente: a detta di Tacito, Nerone sarebbe stato avvistato “mentre correva nel palazzo in preda alle fiamme, qua e là, di notte e senza scorta”.
Nulla di sorprendente, anzi: il panico creato dalla tragedia, le diffuse superstizioni, che l'avrebbero trasformato agli occhi della plebe in una sorta di “iettatore”, la mazzata sulle finanze statali, tutto andava contro gli interessi e la popolarità dell'Imperatore; il quale, peraltro, allo scoppio dell'incendio non si trovava neppure a Roma, ma nella città natale di Anzio.
A chiunque sarebbe passata la voglia di cantare e, infatti, Nerone fece tutt'altro: mise giardini e monumenti a disposizione degli sfollati per una prima accoglienza, si adoperò in prima persona per far giungere sul posto generi di prima necessità, impose un prezzo “politico” per il grano, che costituiva la base dell'alimentazione.
Dopo giorni di lotta, le fiamme furono domate, ma si lasciarono alle spalle l'apocalittico bilancio di oltre 4.000 abitazioni incenerite; e si trattava per lo più di insulae, residenze malsicure e sovraffollate in cui possiamo immaginare le antenate dei “casermoni” che oggi deturpano le periferie più disastrate. In cifre, ad essere rimasti senza tetto erano decine di migliaia di persone: un numero impressionante se si calcola che Roma viaggiava sul milione di abitanti mentre l'Italia di allora non superava i 7 milioni e mezzo.
E qui Nerone diede il meglio di sé, ricostruendo i quartieri distrutti con criteri urbanistici moderni e razionali: strade interne più larghe, spazi ampi fra i singoli edifici, limitazione dell'altezza di questi ultimi, cui si dovevano – come se non bastassero le fiamme – ripetuti crolli.
Sotto Nerone l'Urbe divenne una città molto più bella e sicura, catastrofi come quella descritta non si ripeterono e la frequenza degli incendi calò sensibilmente: per rimettere a ferro e fuoco la “sua” Roma ci sarebbero voluti Alarico e i Visigoti.




LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI

Collegata alla vicenda appena descritta, vi è un'altra accusa che ha marchiato a fuoco – è proprio il caso di dirlo – l'immagine di Nerone: quella di aver avviato le persecuzioni contro i Cristiani.
Soprattutto da Quo Vadis? in poi, è storia nota praticamente a tutti: dopo aver incendiato Roma, Nerone si nascose dietro un capro espiatorio incolpando i seguaci di Cristo e li additò alla rabbia popolare condannandoli a pene atroci; ed ecco legioni di innocenti dati in pasto alle belve, crocifissi, arsi dalle fiamme. L'imperatore aveva, per così dire, preso due piccioni con una fava: aveva trovato un colpevole su cui scaricare le proprie responsabilità e colto al volo l'occasione per colpire una fede che la sua natura malvagia lo portava a detestare.
Questa è la versione raccontata per secoli con dovizia di particolari e invettive. Procediamo per punti a una rilettura dei fatti. Innanzitutto, le accuse di Nerone erano totalmente false? In molti ne dubitano: la base sociale del Cristianesimo era costituita da poveri ed emarginati fortemente inclini all'esasperazione e alla violenza, che vedevano nella nuova fede la punizione divina contro il mondo corrotto e immorale e il riscatto degli umili.
Del resto, Dio non aveva forse colpito col suo fuoco sacro la peccaminosa e godereccia Sodoma? Per i più fanatici – e non erano pochi –, il passo dall'attesa dell'intervento divino all'azione diretta non era poi così lungo: e in entrambi i casi l'obiettivo numero uno sarebbe stato proprio Roma, come molti di loro affermavano spavaldamente.
L'ipotesi più verosimile rimane, comunque, che l'incendio sia scoppiato casualmente: ma neppure questo assolve i Cristiani. Sarebbero da identificare quasi certamente in loro i loschi individui descritti da Tacito: “Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco gridando che questo era l'ordine ricevuto, sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell'ordine fosse reale”.
In sostanza, i più esaltati colsero nell'incendio una manifestazione della potenza divina e si affrettarono a sostenerne la potenza distruttrice ritenendolo un atto di devozione: in questo consisterebbe l'“ordine ricevuto” di cui si parla nel passo citato.
I Cristiani furono processati per il comportamento in questione: l'accusa di aver appiccato per primi il fuoco non venne formulata, mentre la loro fede non fu neppure chiamata in causa. Si trattò di un processo di diritto comune, senza implicazioni politiche o religiose: ma su questo ritorneremo.
Prima è importante una precisazione riguardo alle pene, che a noi appaiono orribili, ma che all'epoca erano del tutto abituali: nei confronti dei Cristiani venne applicata la legislazione corrente, senza accanimento o sadismo di alcun genere. Per essere chiari, i colpevoli furono puniti non in quanto Cristiani, ma in quanto semplici violatori della legge: se gli accusati fossero stati Romani, Greci o appartenenti a qualunque etnia o religione l'esito del processo non sarebbe cambiato di una virgola.
Del resto, la loro colpa non era grave: era gravissima. Abbiamo già visto come, a causa delle condizioni di vita, gli incendi rappresentassero la sciagura più temuta dal popolo e dalle autorità: nulla di strano, quindi, che la figura del piromane – e chi agevolava l'espandersi delle fiamme di fatto lo era – fosse circondata come nessun'altra da odio e panico, percepita come una via di mezzo fra un untore e un terrorista, per dirla con termini più vicini alla nostra epoca. E nulla di strano che anche la legge prevedesse al riguardo il massimo della pena.
Alcuni “innocentisti” insistono sull'antipatia popolare verso i Cristiani, che avrebbe incoraggiato Nerone a sfogare su di loro la rabbia della plebe. Ma ciò non stupisce, poiché i discepoli di Pietro e Paolo, con la loro condotta perennemente rivoltosa, provocatoria e violenta, non potevano aspettarsi nulla di diverso.
Perché, allora, Nerone venne raffigurato come responsabile di persecuzioni? Un equivoco? Qualcosa di peggio, si direbbe. Lo scrittore cristiano Tertulliano gli attribuì addirittura il cosiddetto Institutum Neronianum, una legge che avrebbe affermato esplicitamente “non licet esse vos”, non è lecito essere ciò che siete. Un attacco diretto alla fede in quanto tale, dunque: peccato che nessun autore e nessun codice riportino il benché minimo cenno ad esso, documentando con certezza che si tratta di un falso fabbricato ad arte.
La spiegazione è tanto semplice quanto inquietante: persino gli storici cristiani erano convinti che il comportamento dei loro correligionari non fosse al di sopra di ogni sospetto e, per coprire i troppi dubbi, avrebbero spostato altrove la causa dei processi a loro carico.

Non sai quanto ci fanno piacere le tue perle di saggezza. Ogni volta scopro sempre cose nuove.
E che dire? Su Poppea ho molti dubbi anche io! C'è chi dice (come Svetonio) che sia morta a Pompei, dove ancora vi sono i resti del suo carro reale. Altri affermano che sia stato Nerone ad ucciderla con un calcio. Io sono più propenso a credere alla seconda versione; troppe coincidenze e poi...da Nerone perchè non dobbiamo aspettarcelo?

Per l'incendio di Roma non saprei che dire. Troppe poche le fonti a riguardo che incolpano Nerone. Ma le voci di corridoio contro i Reali sono sempre molte ed offuscano, purtroppo, la realtà storica. Sicuramente è noto l'episodio in cui Nerone, durante l'incendio, sia salito nel terrazzo e abbia recitato, eccitato dalle fiamme, un poema che aveva scritto: Troica. Ovviamente, un richiamo all'incendio di Troia. Coincidenza?
 
Web  Top
raffaelemambella
view post Posted on 13/10/2010, 23:36





Una allusione all'opera poetica di Nerone è in Satyricon di Petronio.
Accanto alla rappresentazione di situazioni licenziose, trova inoltre posto nel romanzo la discussione letteraria: le lettere e le arti sono decadute per l’eccessivo attaccamento al denaro, per l’amore sfrenato dei piaceri e del lusso.
Testimonianza di ciò sono:
- per la decadenza dell’eloquenza, il colloquio tra Encolpio e il retore Agamennone (capp. 1-4);
- per la poesia epica, la declamazione sulla presa di Troia (cap. 89); l’affermazione originale del cap. 90, secondo il quale il poeta, nel momento in cui è preso dall’estro poetico, è un essere fuori del normale (la poesia, sembra affermare P., non è un artificio, ma spontaneità); infine, la recita dei 295 esametri sull’argomento "De bello civili" e l’affermazione che soli veri poeti presso i Romani furono Virgilio e Orazio (capp. 118-124).
[Partendo dai brani poetici suddetti, alcuni hanno voluto vedere nella "Presa di Troia" una parodia di un’opera omonima di Nerone, e negli esametri del "De bello civili" una parodia alla "Farsaglia" di Lucano: in realtà, nel primo caso, c’è semplicemente il desiderio (come detto) di affermare che la poesia è spontaneità, e ciò forse era contro Nerone, che si atteggiava a poeta; nel secondo caso, vi è una condanna alla poetica stoica applicata alla poesia epica, e l’impegno di dimostrare che si poteva fare vera poesia epica anche ispirandosi alla tradizione di Virgilio.]
Grazie per le belle parole gratificanti
 
Top
view post Posted on 8/9/2011, 15:55
Avatar

il confine non va superato, ma ci puoi camminare sopra!
~~~~~

Group:
Member
Posts:
3,410
Location:
Salerno

Status:


Meraviglioso questo albero genealogico, Diana!
Mi complimento per l'intervento di Raffaele. Dal dopoguerra ad oggi la storiografia ha fatto scempio della sanità mentale degli studenti, insegnandogli frasi fatte e schemi rigidi sui personaggi storici. Menomale che negli ultimi anni qualche coraggioso sta cercando di rimediare contagiando (in parte) anche i mass-media.
Il problema è che la massa grassa saprà sempre, ad esempio, che Nerone era un piromane incendiario, perchè ha bisogno di inquadrare ogni personaggio in una categoria preconfezionata. Pochi hanno la pazienza (e l'ardire, direi) di riscoprire la verità storica. A tal proposito, c'è una comparsa in una storia di MM (L'enigma del Sator) che con una vignetta dice.. tutto. Così anche il grande Ottaviano Augusto, ricordato come grande uomo da tutti, viene definito da pochi "politico corrotto e corruttore" qual era. Non era un eroe, un forte battagliero, ma usava l'arma subdola della cospirazione e del ricatto per fregare i nemici. Dei dittatori di solito si dice che sono cattivi perchè hanno "ordinato" di uccidere altri esseri umani, ma di quelli come Augusto che hanno creato disgrazie e morti indirette per altri, non se ne parla. Perchè? Perchè hanno vinto, ecco perchè. Hanno creato una società migliore, che per ringraziarli, si è dimenticata le loro magagne.

CITAZIONE (Pierrot Le Fou @ 10/10/2010, 17:41) 
Ecco, anche io sono dell'idea che le unioni tra parenti siano la causa delle loro infermità mentali XD

non è un'idea, è attestato dalla Scienza, mi pare.
Anche Vittorio Emanuele III era figlio di due cugini, ed aveva gravi malformazioni fisiche a causa di tale incesto.
CITAZIONE (Aussie Mazz @ 12/10/2010, 19:13) 
Di incesto parlavano il mese scorso su National Geographic, anche se a proposito della XVIII dinastia egizia.
Sì, in passato era pratica diffusa tra le famiglie reali per non mescolare il sangue e mantenere una certa linea diretta nella successione al trono. Ovviamente gli inconvenienti psicofisici erano all'ordine del giorno, anche se non sempre accadeva.

Non accadeva perchè i faraoni facevano accoppiare la moglie-sorella con un bell'ufficiale dell'Esercito che stava zitto e non ne faceva parola con nessuno.
Così nascevano nuovi faraoni alti, belli e forti. Altrimenti sarebbero nati altri Vittorio Emanuele III.

Edited by Aldous - 8/9/2011, 17:25
 
Web  Top
view post Posted on 8/9/2011, 16:17

Advanced Member
~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
1,480

Status:


CITAZIONE (Aldous @ 8/9/2011, 16:55) 
CITAZIONE (Pierrot Le Fou @ 10/10/2010, 17:41) 
Ecco, anche io sono dell'idea che le unioni tra parenti siano la causa delle loro infermità mentali XD

non è un'idea, è attestato dalla Scienza, mi pare.
Anche Vittorio Emanuele II era figlio di due cugini, ed aveva gravi malformazioni fisiche a causa di tale incesto.

Beh, ma non sempre accade anche se scientificamente provato ormai. Ma evidentemente c'era qualcosa che non andava già nei geni della dinastia...
 
Web  Top
view post Posted on 8/9/2011, 19:17
Avatar

Senior Member
~~~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
11,658

Status:


CITAZIONE (Aldous @ 8/9/2011, 16:55) 
Meraviglioso questo albero genealogico, Diana!
Mi complimento per l'intervento di Raffaele. Dal dopoguerra ad oggi la storiografia ha fatto scempio della sanità mentale degli studenti, insegnandogli frasi fatte e schemi rigidi sui personaggi storici. Menomale che negli ultimi anni qualche coraggioso sta cercando di rimediare contagiando (in parte) anche i mass-media.
Il problema è che la massa grassa saprà sempre, ad esempio, che Nerone era un piromane incendiario, perchè ha bisogno di inquadrare ogni personaggio in una categoria preconfezionata. Pochi hanno la pazienza (e l'ardire, direi) di riscoprire la verità storica. A tal proposito, c'è una comparsa in una storia di MM (L'enigma del Sator) che con una vignetta dice.. tutto. Così anche il grande Ottaviano Augusto, ricordato come grande uomo da tutti, viene definito da pochi "politico corrotto e corruttore" qual era. Non era un eroe, un forte battagliero, ma usava l'arma subdola della cospirazione e del ricatto per fregare i nemici. Dei dittatori di solito si dice che sono cattivi perchè hanno "ordinato" di uccidere altri esseri umani, ma di quelli come Augusto che hanno creato disgrazie e morti indirette per altri, non se ne parla. Perchè? Perchè hanno vinto, ecco perchè. Hanno creato una società migliore, che per ringraziarli, si è dimenticata le loro magagne.

In effetti è vero, ultimamente si sta cercando di riabilitare molti imperatori romani, Nerone in primis, ma è bene non strafare. In quanto ad Augusto: come hai detto tu, ha vinto, e questo bastava. Così ecco Antonio corrotto , vile, schiavo d'amore per la straniera Cleopatra, inetto e fanfarone contrapposto ad Augusto, uomo senza macchia e senza paura, che dà mostra di grazia crocifiggendo solo 300 marinai, che è fedelmente sposato con Livia e se la tradisce lo fa solo per il bene dello Stato.
Tra l'altro ritengo che Ottaviano fosse un vero malato di sesso, ma tralasciamo

CITAZIONE (Pierrot Le Fou @ 8/9/2011, 17:17) 
CITAZIONE (Aldous @ 8/9/2011, 16:55) 
non è un'idea, è attestato dalla Scienza, mi pare.
Anche Vittorio Emanuele II era figlio di due cugini, ed aveva gravi malformazioni fisiche a causa di tale incesto.

Beh, ma non sempre accade anche se scientificamente provato ormai. Ma evidentemente c'era qualcosa che non andava già nei geni della dinastia...

anche l'incesto ha influito, e direi non poco, I Savoia, ma non solo avevano abitudine di sposarsi tra cugini, il chè spiegherebbe perchè molti di loro presentavano diverse tare, sia fisiche chè mentali. Mi vengono in mente Carlo II di Spagna, Vittorio Emanuele III di Savoia e Aleksej Romanov. Per fortuna con al scoperta della genetica sembra che i reali l'abbiano capito
 
Web  Top
view post Posted on 9/9/2011, 10:08
Avatar

il confine non va superato, ma ci puoi camminare sopra!
~~~~~

Group:
Member
Posts:
3,410
Location:
Salerno

Status:


scusate ho scritto Vittorio Emanuele II per errore di battitura. Sappiamo bene che era il terzo III.
Grazie delle risposte.
 
Web  Top
view post Posted on 9/9/2011, 10:14
Avatar

Senior Member
~~~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
11,658

Status:


CITAZIONE (Aldous @ 9/9/2011, 11:08) 
scusate ho scritto Vittorio Emanuele II per errore di battitura. Sappiamo bene che era il terzo III.
Grazie delle risposte.

anche Vittorio Emanuele II era figlio di due cugini, e si vede confrontando i ritratti del padre con i suoi.


per tornare IT: ogni clichè, sia su Nerone ché su Agrippina
 
Web  Top
view post Posted on 1/9/2012, 14:32
Avatar

Senior Member
~~~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
11,658

Status:


Tra i libri utili, sebbene romanzati, uno degli ultimi usciti è " La Dinastia ", di Andrea Frediani

http://www.10righedailibri.it/sites/defaul...La-dinastia.gif

Romanzato è romanzato ma ha il pregio di rendere più vivaci quelle che altrimenti sono soltanto colonen di dati, uno peggiore dell'altro e che alal fien non stupiscono più. Tutti, da ottaviano a Nerone, manca solamente Cesare
 
Web  Top
Romanov in the Heart
view post Posted on 18/12/2012, 16:11




A proposito di Giuli/Claudi, ecco un bel personaggino che si è fatto notare in quest'epoca: Boudicca! ^_^

boudicca
Statua della Regina Boudicca a Westminster

E' da due grandi autori dell'antichità, lo storico latino Tacito, negli “Annali” e nell’”Agricola”, e lo storico greco Dione Cassio, nella “Storia romana”,sche possiamo ricavare informazioni riguardo alla regina-guerriera Boudica, la famosa donna che assommò in sé l’autentica cifra delle donne celte, ma , in generale, dello straordinario popolo dei Celti: la fierezza. Boudica (Vittoria), spesso erroneamente ortografata con due “c”, Boudicca, chiamata anche Budiga o Boadicea, di cui si ignorano le origini, probabilmente, però, nobili, era alta, bella, con lunghi capelli fiammeggianti, intorno al collo portava il torquis, la pesante collana celtica considerata simbolo di nobiltà e del legame con l’aldilà; coraggiosa e fiera, incitava gli uomini alla battaglia, spostandosi sul carro ( per i Celti simbolo di potere e poderosa arma di battaglia per la velocità e la notevole capacità di penetrazione in battaglia fra le schiere avverse).

CITAZIONE
Era di statura imponente, dall’aspetto terribile, di sguardo lampeggiante ferocissimo e di voce glaciale; una gran massa di capelli fulvi le calava sulle spalle; intorno alla sua gola c’era una grossa collana d’oro e indossava una tunica di vari colori con sopra un mantello fermato da una fibbia. Questo era il suo invariabile abbigliamento.

(Dione Cassio, “Storia romana”, 62.3-6)

Boudica era la sposa di Prasutagus, re di una potente tribù, gli Iceni, le cui terre si trovavano nell’Inghilterra orientale, nelle odierne contee di Norfolk e Suffolk, che si era sottomesso all’imperatore Claudio.
Quando Prasutagus morì, nel 60 d.C., senza eredi maschi, lasciò tutte le sue ricchezze alle due figlie e all'imperatore Nerone, sperando, così, di ottenere protezione per la sua famiglia, ed invece i Romani, per annettersi il regno, occuparono e saccheggiarono i suoi territori ed umiliarono la sua famiglia, picchiando la moglie e stuprando le figlie; allora Boudica si armò contro gli invasori.

CITAZIONE
Il re degli Iceni, Prasutago, famoso per un’ opulenza che risaliva a molti anni, aveva lasciato come suoi eredi due figlie e l’imperatore, pensando che con tale atto d’omaggio egli avrebbe preservato il suo regno e la sua famiglia da ogni offesa. Accadde, tuttavia, il contrario, al punto che il regno fu devastato dai centurioni, la casa dei servi, come se si fosse trattato di preda di guerra. La moglie di lui, Budicca, fu bastonata e le figlie furono violentate…

(Tacito, “Annali”, 14. 31)

CITAZIONE
Budicca, portando sul carro dinnanzi a sé le due figlie, scorreva le file e a ciascuna delle genti alle quali si avvicinava dichiarava che era pur consuetudine per i Britanni combattere agli ordini di donne, ma che in quel momento essa non voleva vendicare, come discendente di nobili antenati, la perdita del regno e delle ricchezze, ma, come una donna qualunque, chiedeva vendetta per la perdita della libertà, per l’offesa recata al suo corpo fustigato, per il violato pudore delle sue figlie. Le brame dei Romani erano giunte a tal punto da non lasciare inviolati né i corpi, né la vecchiezza, né la verginità. Era pur giunta l’ora delle giuste vendette degli dei; la legione che aveva osato attaccare battaglie era stata tagliata a pezzi, gli altri stavano nascosti negli accampamenti, o spiavano la possibilità di una fuga. I Romani non avrebbero neppure potuto sopportare il fragore e le grida di tante migliaia d’uomini, e neppure la violenza degli assalti; se i Britanni avessero considerato la forza dei loro eserciti e le ragioni della guerra, avrebbero dovuto, in quella battaglia, o vincere o morire. Questo, lei, donna, aveva comandato a sé; gli uomini conservassero pure la vita e si piegassero a servire.

(Tacito, “Annali”, 14. 35)

CITAZIONE
… sotto il comando di Budicca, donna di stirpe regia (essi, infatti, nel conferimento del supremo potere non badano al sesso).

(Tacito, “La vita di Agricola”, 1. 16)

Desiderosa di giustizia, per lavare l’oltraggio subito, ed anche per ribellione contro le continue vessazioni dei Romani, Boudica organizzò un grande esercito, con il quale riuscì a cacciare i nemici da Camulodunum (Colchester) e a riprendersi Londinium (Londra) e Verulanium (St. Albans); ben presto, però, i nemici si riorganizzarono e riconquistarono il suo regno, falcidiando 80.000 dei 100.000 britannici (i Romani, invece, persero 400 uomini su 1.200).
Costretta ad arrendersi, fu condotta in carcere, ma qui, pur di non sottomettersi ai nemici, si uccise, ingerendo del veleno. E la mitica regina guerriera, che tanto aveva colpito i due grandi autori latini per il coraggio “virile”, amata ai nostri giorni dalle femministe per l’ardente sete di libertà, considerata nei libri scolastici inglesi una delle eroine della patria, conosciuta come la prima regina d'Inghilterra, immortalata trionfante, insieme alle figlie, mentre guida il suo carro da guerra, in una statua in bronzo (eretta nel 1902, opera dello scultore Thomas Thorneycroft), che troneggia, oggi, sul Tamigi, a Londra, ai piedi del Big-Ben, all’estremità nord del ponte di Westminster, non ha mancato di regalare altre emozioni quando, nel 2004, nei dintorni di Hunstanton, a Norfolk, è stato ritrovata la seconda parte (la prima era stata ritrovata 40 anni prima) di una collana che gli storici ritengono appartenuta proprio a lei.
 
Top
view post Posted on 19/12/2012, 09:04
Avatar

Senior Member
~~~~~~~

Group:
Administrator
Posts:
11,658

Status:


La grande nemica dei Romani. Credo che quello che le mancò, e che mancò a tutti i celti, sia francesi che inglesi, fosse un'organozzazione adeguata perchè altrimenti erano avversari temibili

boadiceadaughters

Uploaded with ImageShack.us


Il monumento no, è un obbrobrio anacronistico quel coso, por favor no
 
Web  Top
Romanov in the Heart
view post Posted on 19/12/2012, 17:46




L'incisione è carina


E comunque è la sua unica statua U.U o almeno, mi sembrava meglio di quella che c'è a Colchester, che non oso nemmeno chiamare statua

can-stock-photo_csp8011787
 
Top
34 replies since 10/10/2010, 16:29   1297 views
  Share