| L'ispirazione filo-senatoria dei due storici principali di Nerone, Tacito e Svetonio, andò, per giunta, a coincidere con la strategia propagandistica di Traiano e della cosiddetta dinastia Antoniniana, che aveva tutto l'interesse a screditare gli imperatori del passato meno recente, soprattutto quelli della dinastia Giulio-Claudia . I due storici – e altri loro meno illustri colleghi – fecero uno più uno, mettendo la propria indiscutibile abilità retorica al servizio di una riscrittura palesemente faziosa del secolo precedente e delle sue complesse vicende: ed ecco il susseguirsi di accuse infondate, deformazioni dei fatti, morti naturali contrabbandate per efferati delitti, dettagli truculenti o pruriginosi inventati di sana pianta e via calunniando, fino a trasformare in una galleria degli orrori il periodo che coincise con l'affermazione incontrastata dell'Impero. La loro versione, a dire il vero, conteneva contraddizioni interne evidenti anche al lettore più disattento; alcuni riferimenti isolati, inseriti a mezza bocca per non insospettire chi di dovere, avrebbero permesso di ricavare fra le righe un'immagine assai più realistica dell'accaduto. Ma alla malafede dei senatori si era aggiunta quella dei Cristiani, ancora più intrisa di fanatismo e odio ideologico: per motivi che vedremo, gli autori ispirati dalla nuova fede identificarono in Nerone il loro primo persecutore e questo li indusse ad avallare tutte le accuse a suo carico aggiungendone di proprio pugno. Si spiega così uno degli aspetti più singolari della “fortuna” di Nerone. Altri imperatori (Tiberio, Caligola, Claudio, Domiziano) finirono senza meritarlo del tutto nel tritacarne della storiografia senatoria, ma gli autori successivi si limitarono ad un'opera di compilazione: trovavano pezze d'appoggio al loro astio nelle pagine di Tacito e Svetonio e trascrivevano il tutto senza l'ombra di un'analisi critica. A Nerone andò peggio: non paghi delle già pesanti accuse che trovavano nelle fonti, gli autori tardo-antichi utilizzarono l'argomento come una valvola di sfogo per la loro fantasia, aggiungendovi particolari e trasformando voci o ipotesi – beninteso, se utili al loro scopo – in trancianti certezze per renderne sempre più cupa – e più inverosimile, ma di questo non si curavano – la figura. Di qui il paradosso per cui le imputazioni a suo carico diventano sempre più nette, documentate e prive di dubbi man mano che ci si allontana dall'epoca dei fatti: come se la memoria degli eventi, anziché svanire o sfumare nel mito, acquistasse forza e lucidità col passare del tempo. Agevolata da malafede, pigrizia mentale e scarsa conoscenza del mondo antico, fissata negli occhi e nella mente del pubblico dai falsissimi kolossal hollywoodiani – Quo vadis? in primo luogo – con le loro ricostruzioni storiche inverosimili fino al ridicolo, la leggenda di Nerone-mostro è giunta fino alla cultura media contemporanea e – ciò che è più grave – alla manualistica scolastica, dove tuttora spadroneggia. Rileggendo i più noti delitti attribuiti a Nerone, si ha, infatti, una sensazione di familiarità, come se si trattasse di un argomento comune, quasi proverbiale e non di un sapere “difficile” o “per pochi” come viene solitamente considerato quello relativo al mondo antico. Proviamo a ripercorrerli senza troppe pretese, ma con un minimo di spirito critico, per rispondere a una domanda: quanto c'è di vero in tante accuse?
IL QUINQUENNIUM FELIX
Per generazioni di studenti, confrontarsi con questa dicitura è stata una tappa obbligata: nei primi cinque anni di regno Nerone venne affiancato dai saggi precettori Burro e Seneca che si sostituirono di fatto a lui nella guida dell'Impero e ispirarono una politica saggia e bonaria; in seguito, il principe li allontanò ed emerse la sua vera natura, con annessi delitti e sconcezze. Così, almeno, racconta da secoli la storiografia ufficiale. Per capire se andò davvero in questi termini è utile risalire all'origine della questione. L'espressione “incriminata” ricorre per la prima volta nell'opera di uno storico del periodo tardo-antico, Aurelio Vittore, che riporta un'affermazione di Traiano: a suo dire, il momento più felice vissuto dall'Impero – almeno fino ai suoi tempi – sarebbe coinciso con un breve periodo indicato appunto come Quinquennium Neronis. Ma in quali anni va collocata questa breve e intensa “età dell'oro”? La risposta corrente è stata, fino a tutto l'Ottocento, quella indicata in apertura, finché alcuni storici hanno voluto vederci chiaro. Ed ecco la sorpresa: il formidabile quinquennio coinciderebbe quasi sicuramente non coi primi (54-58 d.C.), ma con gli ultimi anni del principato neroniano (64-68). Sì, proprio quelli solitamente descritti come il trionfo della follia e della crudeltà. Ma cosa sarebbe accaduto di tanto straordinario da farne un periodo memorabile? Per capirlo bisogna ripercorrere alcune tappe fondamentali del regno di Nerone. Salito al potere a soli 17 anni, il principe subì inizialmente la tutela della madre Agrippina, ma se ne liberò in fretta, avviando una politica che originariamente intendeva come distensiva nei confronti del Senato, di cui cercava la collaborazione. Ben presto, però, si rese conto che quella strada non era percorribile e svoltò dapprima timidamente, poi con sempre maggiore decisione verso scelte fortemente innovative, che tagliavano fuori l'aristocrazia dal governo dell'Impero: la svolta prese le mosse, per l'appunto, attorno al 58. L'ottica dei senatori – che poi è la stessa di quasi tutte le fonti antiche, Tacito in primo luogo – è chiara: in rapporto ai loro interessi, quell'anno segnò il passaggio da una fase ad essi favorevole ad una in cui il loro ruolo veniva messo pesantemente in discussione; non sorprende, quindi, che considerassero il cambiamento come un passaggio dal Bene al Male. Ma chi vuole indagare seriamente i fatti non può accontentarsi di una visuale così ristretta e soggettiva. Libero di prendere l'iniziativa, Nerone varò infatti un programma di riforme socio-economiche e amministrative a tutto campo, diede impulso alle arti e alle scienze, cercò di ammodernare le strutture dell'Impero per adeguarle alla necessità di governare un territorio estesissimo: negli ultimi anni si iniziò a raccogliere i frutti del suo lavoro. Qualche esempio? Contestualmente alla ricostruzione di Roma dopo l'incendio, venne edificata la grandiosa Domus Aurea, una vastissima residenza imperiale che conteneva un'autentica summa delle conoscenze artistiche dell'epoca: benché sia stata parzialmente interrata dai suoi successori, possiamo ancora coglierne ed intuirne lo splendore. In “politica estera” inaugurò una modernissima strategia che cercava non la guerra a tutti i costi, ma la definizione di sfere di influenza e rapporti di buon vicinato per raggiungere l'obiettivo di un assetto stabile: vi riuscì coi Parti – una popolazione persiana che occupava un ampio territorio sui confini orientali dell'Impero – stipulando con essi una pace che avrebbe retto per oltre mezzo secolo; altrettanto fece in Britannia dove, ultimata la conquista, venne avviata in grande stile la romanizzazione dell'isola. Il suo intervento diretto giovò non poco all'economia, che trasse grandi benefici da altri due fattori: l'intensa attività di esplorazione ai margini dei territori imperiali e la realizzazione di opere pubbliche (canali navigabili, in particolare), che agevolarono notevolmente la circolazione delle merci.
L'UCCISIONE DEL FRATELLASTRO
Fra i primi delitti attribuiti a Nerone figura l'assassinio del fratellastro Britannico, che sarebbe avvenuto nel 55 a pochi mesi dall'ascesa al trono: per capire se la causa del decesso fu davvero quella occorre un passo indietro, allo scopo di ricostruire il contesto familiare in cui si svolsero i fatti. Lucio Domizio Enobarbo – questo il suo nome originario – era nato da un precedente matrimonio di Agrippina con un certo Gneo; in seguito, la madre riuscì a sposare l'imperatore Claudio – che era anche suo zio e aveva già un figlio naturale, vale a dire lo stesso Britannico – grazie a una serie di complessi intrighi di corte e convinse il neo-marito ad adottare il figlio, che – com'era abituale presso i Romani – assunse un nuovo nome basato sulla genealogia del padre putativo. Nell'interminabile onomastica ereditata dalla casata Giulio-Claudia era compreso anche il nominativo di Nerone, col quale sarebbe passato alla storia. Affiancare un altro pretendente all'erede legittimo – che poi era tale solo in teoria, come vedremo – contribuiva ad alimentare lotte feroci per la successione. E quando, alla morte di Claudio – avvelenato per iniziativa della stessa Agrippina e forse di Seneca –, Nerone venne preferito a Britannico, si capì in breve tempo che il suo potere non era affatto al sicuro: la restituzione del trono usurpato al legittimo successore era un argomento pretestuoso, ma troppo succulento perché i suoi avversari se lo lasciassero sfuggire. Arriviamo, così, agli ultimi giorni di Britannico. Stando al racconto di Svetonio e a quello, assai più dettagliato, di Tacito, il movente del delitto andava ricercato proprio nella necessità di puntellare un trono non particolarmente solido: le minacce di Agrippina, pronta a punire la scarsa ubbidienza del figlio appoggiando il suo rivale, e alcune aperte manifestazioni di simpatia nei confronti di quest'ultimo avrebbero convinto Nerone che occorreva sbarazzarsi in tempo di quel detestato e pericolosissimo concorrente. Secondo Tacito, l'imperatore diede ordine di preparare un veleno dall'effetto immediato e di somministrarlo al fratellastro durante un banchetto di corte: la pozione sortì i risultati sperati, che Nerone attribuì ad un attacco di epilessia cui Britannico andava frequentemente soggetto, ma tutti i presenti presero a fissarlo, riconoscendo con nitidezza in quella scena le responsabilità del colpevole e il presagio dei suoi futuri crimini. Una descrizione di raro fascino, in linea con l'inimitabile scrittura di Tacito; ma, svanito il piacere letterario, occorre analizzare il racconto per comprendere se sia anche attendibile. E qui, già a una prima lettura, i conti non tornano. Tanto per cominciare, le fonti concordano sul fatto che il veleno, per dirla con Tacito, “si diffuse in tutte le membra, al punto da togliergli insieme la parola e la vita”: peccato che i Romani non conoscessero veleni fulminanti. Sostanze del genere, ad esempio il curaro, erano in uso a quei tempi presso popolazioni del continente americano, con cui Roma non aveva naturalmente contatti, mentre l'Europa occidentale ebbe a disposizione qualcosa di simile solo nel 1872 con la scoperta del cianuro. Un dettaglio tecnico inconfutabile, cui si aggiungono altre considerazioni. A parte l'assurdità di un delitto commesso così platealmente e alla presenza di parecchi testimoni, pochi mesi prima a Nerone era stata presentata una denuncia a carico di tale Giulio Denso, un cavaliere accusato non solo di aperte simpatie verso Britannico, ma di attivismo politico a suo favore. L’imperatore non diede neppure corso al processo in questione, che gli offriva su un piatto d'argento una copertura legale per le sue manovre: possibile che abbia cambiato completamente idea – e perso la testa, per dirla tutta – nel giro di qualche settimana? Anche il movente indicato non convince affatto. Agrippina aveva dato fondo al suo repertorio, non disdegnando calunnie, omicidi e quant'altro, per portare Nerone sul trono e, tramite lui, mettere le mani sul potere: l'“assedio” a Claudio per ottenere il suo assenso al matrimonio – fra le altre cose, apertamente incestuoso –, l'uccisione dello stesso imperatore, la fittissima rete di intrighi e colpi bassi con potentissimi funzionari di corte non erano altro che le tappe di un complesso disegno messo in atto per spianare la strada al “suo” candidato a tutto danno di Britannico. Credere che quest'ultimo fosse disposto ad accettarla come alleata, stendendo un velo sulle sue passate malefatte, appartiene a pieno titolo alla fantastoria. Ma il dato di fondo da cui partire è un altro: Britannico non aveva alcuna precedenza nella successione al trono. Alla morte di un imperatore, infatti, il potere non passava direttamente al primogenito – come avviene solitamente nelle monarchie – ma, in mancanza di indicazioni precise del precedente Cesare, il successore emergeva da un numero assai ampio di pretendenti, ai quali era richiesta unicamente una parentela, anche non immediata, con Augusto; beninteso, il legame genealogico col fondatore dell'impero poteva risalire indifferentemente al ramo paterno o a quello materno. In più, bisogna considerare che nel diritto romano i figli adottivi erano pienamente equiparati a quelli naturali; Nerone era dunque figlio a pieno titolo di Claudio e vantava, grazie all'ascendenza di Agrippina, quarti di nobiltà di prim'ordine. Sul piano dinastico, insomma, la sua candidatura era al di sopra di ogni sospetto: l'abitudine di additarlo come usurpatore, assai diffusa fra i suoi detrattori, non aveva alcun fondamento. Come morì, allora, Britannico? Impossibile stabilirlo con certezza, ma le circostanze del decesso, del tutto inadatte ad un “delitto perfetto”, costituiscono un alibi di ferro per qualunque sospettato, non solo per Nerone. A questo punto, si può tentare di seguire un'altra pista. Britannico non godeva affatto di buona salute, soffriva di epilessia, non aveva mai mostrato una costituzione sufficientemente robusta e in molti dubitavano che potesse vivere a lungo: proprio tali considerazioni avevano convinto Claudio ad adottare Nerone per affiancare una “carta di riserva” al suo unico figlio maschio. E la descrizione della sua morte – per quanto imprecisa e difficile da confrontare con la moderna sintomatologia – ricorda da vicino gli esiti di un aneurisma, che può accompagnare le crisi epilettiche e portare a una morte pressoché istantanea. Se si considera che altre fonti dell'epoca attribuiscono a Nerone una serie di delitti, ma senza far cenno all'uccisione di Britannico, è possibile che Tacito e Svetonio abbiano mentito consapevolmente, cogliendo al volo l'opportunità offerta da una tragica fatalità per inventarsi un crimine odioso allo scopo di colpire un nemico politico. Almeno da questo punto di vista, si direbbe che in venti secoli di storia sia cambiato ben poco.
L'UCCISIONE DI POPPEA
Nello sterminato elenco dei crimini attribuiti a Nerone figurano anche due uxoricidi: sia Ottavia che Poppea sarebbero morte per mano dell'illustre marito. Nulla da dire sulla prima: per poter sposare l'altra, l'imperatore la ripudiò con accuse false e mal congegnate, creando un forte malcontento popolare, e in un secondo momento ne ordinò l'uccisione. Ma Poppea? Di lei rimane un'immagine alquanto sfocata: bella, bionda, colta, affascinata dall'Oriente, molto superstiziosa, amatissima da Nerone; il resto, a partire dal suo temperamento che alcuni descrivono come dissoluto e crudele, altri con toni decisamente meno negativi, appartiene al mondo dell'opinabile per gli antichi e dell'indimostrabile per noi. Ma non è questo il punto: ciò che ci interessa è cercare di capire se davvero la sua morte sia dovuta a un omicidio più o meno intenzionale. Sulle modalità del fatto le fonti concordano: in un impeto d'ira, Nerone l'avrebbe colpita con un calcio al ventre mentre era in attesa di un figlio, causandone la morte; Svetonio aggiunge il motivo del litigio sfociato in tragedia: Poppea “lo aveva rimproverato aspramente per essere tornato tardi da una corsa di carri”. Ma la testimonianza non convince. Innanzitutto, il legame fra Nerone e Poppea andava molto al di là dell'aspetto sentimentale, che pure non sembra affatto estraneo alla vicenda: per lei l'imperatore si era impelagato nella delicatissima procedura del ripudio di Ottavia, dal quale era uscito con un delitto “scomodo” e un forte, anche se momentaneo, calo di popolarità; per lei aveva rischiato di perdere il favore della plebe e, forse, addirittura il trono; da lei attendeva l'erede che, dandogli una continuità dinastica, lo avrebbe definitivamente legittimato alla guida dell'Impero. È credibile che Nerone, seppure in un momento di follia, si sia macchiato di un atto inconsulto che lo danneggiava così pesantemente sia sul piano politico che su quello umano? Francamente sembra davvero troppo, a meno di non vedere nel gesto una vena di autolesionismo di cui, però, non c'è traccia neppure nell'interminabile elenco di pazzie e tare psichiche attribuitegli dalla tradizione. Anche la descrizione del suo stato d'animo, per quanto vada presa con estrema cautela, sembra andare in direzione opposta all'ipotesi dell'omicidio: Nerone, nelle parole di Tacito, appare affranto, travolto da un dolore senza freno, disposto a qualunque stravaganza per celebrare la memoria dell'amata. Sarà un caso, ma la sua reazione ai delitti effettivamente commessi – ad esempio l'uccisione della madre Agrippina – appariva caratterizzata da un'inquietudine ben diversa e, tutt'al più, dai rimorsi. Come morì, allora, la donna che Nerone “amò più di ogni altra cosa”, come ricorda Svetonio? La risposta potrebbe trovarsi in una preziosa annotazione che lo stesso storico inserisce quasi furtivamente nel suo racconto: al momento del decesso, Poppea era debilitata non solo dalla gravidanza, ma anche da una malattia. Chissà, forse persino l'autore era convinto che si fosse trattato di una morte per cause naturali ed escogitò una sorta di scrittura “a chiave”: in superficie la versione ufficiale contraria a Nerone, ma con un dettaglio “dimenticato” quasi casualmente che avrebbe potuto suggerire a chi voleva intendere una diversa interpretazione dell'accaduto. Una sorta di “indizio in codice” che ben pochi hanno saputo – o voluto? – capire.
L'INCENDIO DI ROMA
Nerone, mentre contemplava l'incendio dalla Torre di Mecenate, “allietato – sono le sue parole – dalla bellezza delle fiamme”, cantò La distruzione di Troia indossando il suo abito di scena.
Nelle parole di Svetonio viene dipinta un'immagine destinata ad attraversare i secoli: quella dell'imperatore che ordina di appiccare il fuoco ai quartieri più poveri dell'Urbe e, scoppiato l'incendio, ne trae ispirazione per il grande artista che credeva di essere. Perché tanta follia? Per cancellare quel vespaio di viuzze e casupole che offendeva il suo senso estetico, per fare spazio alla futura Domus Aurea, per “replicare” la fine di Troia, divorata dalle fiamme, e cantarla in versi come Omero nei suoi poemi: le fonti forniscono diverse ipotesi, ma concordano sulla criminale megalomania di Nerone, cui andrebbe attribuita quella catastrofe. Le cose, in realtà andarono diversamente, a cominciare dall'origine dell'incendio. Fatti del genere erano quasi abituali nelle città antiche, i cui rioni popolari pullulavano di abitazioni ammassate, spesso costruite in legno e senza acqua corrente: bastava usare con troppa imprudenza un braciere o una torcia per scatenare l'inferno. Non sempre, sia chiaro, il disastro raggiungeva proporzioni così spaventose, ma anche qui non occorre scomodare piromani e imperatori folli: il forte vento, la situazione climatica (si era in piena estate), la massiccia presenza di magazzini stipati di merce infiammabile, l'eccezionale densità di popolazione spiegano ampiamente come il fuoco sia divenuto tanto inarrestabile da divorare interi quartieri. Del resto, anche le parole degli storici antichi – gli stessi che sembrerebbero addebitargli le infamanti accuse – rendono conto di una situazione del tutto differente: a detta di Tacito, Nerone sarebbe stato avvistato “mentre correva nel palazzo in preda alle fiamme, qua e là, di notte e senza scorta”. Nulla di sorprendente, anzi: il panico creato dalla tragedia, le diffuse superstizioni, che l'avrebbero trasformato agli occhi della plebe in una sorta di “iettatore”, la mazzata sulle finanze statali, tutto andava contro gli interessi e la popolarità dell'Imperatore; il quale, peraltro, allo scoppio dell'incendio non si trovava neppure a Roma, ma nella città natale di Anzio. A chiunque sarebbe passata la voglia di cantare e, infatti, Nerone fece tutt'altro: mise giardini e monumenti a disposizione degli sfollati per una prima accoglienza, si adoperò in prima persona per far giungere sul posto generi di prima necessità, impose un prezzo “politico” per il grano, che costituiva la base dell'alimentazione. Dopo giorni di lotta, le fiamme furono domate, ma si lasciarono alle spalle l'apocalittico bilancio di oltre 4.000 abitazioni incenerite; e si trattava per lo più di insulae, residenze malsicure e sovraffollate in cui possiamo immaginare le antenate dei “casermoni” che oggi deturpano le periferie più disastrate. In cifre, ad essere rimasti senza tetto erano decine di migliaia di persone: un numero impressionante se si calcola che Roma viaggiava sul milione di abitanti mentre l'Italia di allora non superava i 7 milioni e mezzo. E qui Nerone diede il meglio di sé, ricostruendo i quartieri distrutti con criteri urbanistici moderni e razionali: strade interne più larghe, spazi ampi fra i singoli edifici, limitazione dell'altezza di questi ultimi, cui si dovevano – come se non bastassero le fiamme – ripetuti crolli. Sotto Nerone l'Urbe divenne una città molto più bella e sicura, catastrofi come quella descritta non si ripeterono e la frequenza degli incendi calò sensibilmente: per rimettere a ferro e fuoco la “sua” Roma ci sarebbero voluti Alarico e i Visigoti.
LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI
Collegata alla vicenda appena descritta, vi è un'altra accusa che ha marchiato a fuoco – è proprio il caso di dirlo – l'immagine di Nerone: quella di aver avviato le persecuzioni contro i Cristiani. Soprattutto da Quo Vadis? in poi, è storia nota praticamente a tutti: dopo aver incendiato Roma, Nerone si nascose dietro un capro espiatorio incolpando i seguaci di Cristo e li additò alla rabbia popolare condannandoli a pene atroci; ed ecco legioni di innocenti dati in pasto alle belve, crocifissi, arsi dalle fiamme. L'imperatore aveva, per così dire, preso due piccioni con una fava: aveva trovato un colpevole su cui scaricare le proprie responsabilità e colto al volo l'occasione per colpire una fede che la sua natura malvagia lo portava a detestare. Questa è la versione raccontata per secoli con dovizia di particolari e invettive. Procediamo per punti a una rilettura dei fatti. Innanzitutto, le accuse di Nerone erano totalmente false? In molti ne dubitano: la base sociale del Cristianesimo era costituita da poveri ed emarginati fortemente inclini all'esasperazione e alla violenza, che vedevano nella nuova fede la punizione divina contro il mondo corrotto e immorale e il riscatto degli umili. Del resto, Dio non aveva forse colpito col suo fuoco sacro la peccaminosa e godereccia Sodoma? Per i più fanatici – e non erano pochi –, il passo dall'attesa dell'intervento divino all'azione diretta non era poi così lungo: e in entrambi i casi l'obiettivo numero uno sarebbe stato proprio Roma, come molti di loro affermavano spavaldamente. L'ipotesi più verosimile rimane, comunque, che l'incendio sia scoppiato casualmente: ma neppure questo assolve i Cristiani. Sarebbero da identificare quasi certamente in loro i loschi individui descritti da Tacito: “Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco gridando che questo era l'ordine ricevuto, sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell'ordine fosse reale”. In sostanza, i più esaltati colsero nell'incendio una manifestazione della potenza divina e si affrettarono a sostenerne la potenza distruttrice ritenendolo un atto di devozione: in questo consisterebbe l'“ordine ricevuto” di cui si parla nel passo citato. I Cristiani furono processati per il comportamento in questione: l'accusa di aver appiccato per primi il fuoco non venne formulata, mentre la loro fede non fu neppure chiamata in causa. Si trattò di un processo di diritto comune, senza implicazioni politiche o religiose: ma su questo ritorneremo. Prima è importante una precisazione riguardo alle pene, che a noi appaiono orribili, ma che all'epoca erano del tutto abituali: nei confronti dei Cristiani venne applicata la legislazione corrente, senza accanimento o sadismo di alcun genere. Per essere chiari, i colpevoli furono puniti non in quanto Cristiani, ma in quanto semplici violatori della legge: se gli accusati fossero stati Romani, Greci o appartenenti a qualunque etnia o religione l'esito del processo non sarebbe cambiato di una virgola. Del resto, la loro colpa non era grave: era gravissima. Abbiamo già visto come, a causa delle condizioni di vita, gli incendi rappresentassero la sciagura più temuta dal popolo e dalle autorità: nulla di strano, quindi, che la figura del piromane – e chi agevolava l'espandersi delle fiamme di fatto lo era – fosse circondata come nessun'altra da odio e panico, percepita come una via di mezzo fra un untore e un terrorista, per dirla con termini più vicini alla nostra epoca. E nulla di strano che anche la legge prevedesse al riguardo il massimo della pena. Alcuni “innocentisti” insistono sull'antipatia popolare verso i Cristiani, che avrebbe incoraggiato Nerone a sfogare su di loro la rabbia della plebe. Ma ciò non stupisce, poiché i discepoli di Pietro e Paolo, con la loro condotta perennemente rivoltosa, provocatoria e violenta, non potevano aspettarsi nulla di diverso. Perché, allora, Nerone venne raffigurato come responsabile di persecuzioni? Un equivoco? Qualcosa di peggio, si direbbe. Lo scrittore cristiano Tertulliano gli attribuì addirittura il cosiddetto Institutum Neronianum, una legge che avrebbe affermato esplicitamente “non licet esse vos”, non è lecito essere ciò che siete. Un attacco diretto alla fede in quanto tale, dunque: peccato che nessun autore e nessun codice riportino il benché minimo cenno ad esso, documentando con certezza che si tratta di un falso fabbricato ad arte. La spiegazione è tanto semplice quanto inquietante: persino gli storici cristiani erano convinti che il comportamento dei loro correligionari non fosse al di sopra di ogni sospetto e, per coprire i troppi dubbi, avrebbero spostato altrove la causa dei processi a loro carico.
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