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| estratti da "Vite dei dodici Cesari" di Svetonio, questo su Caligola, poi cercherò gli altri...
Fece costruire tra Baia e la diga di Pozzuoli, che separava uno spazio di circa tremila e seicento passi, un ponte formato da navi da carico, riunite da tutte le parti e collocate all'ancora su due file; poi le si ricoprì di terra dando a tutto l'insieme l'aspetto della via Appia. Per due giorni di seguito non la smise di andare e venire su questo ponte: il primo giorno si fece vedere su un cavallo riccamente bardato, con una corona di quercia, una cetra, una spada e una veste broccata d'oro, il giorno dopo, vestito come un cocchiere di quadriga, guidava un carro tirato da due cavalli celebri, che erano preceduti dal giovane Dario, uno degli ostaggi dei Parti, e seguiti da una schiera di pretoriani e di veicoli con a bordo un gruppo di amici. [...] Fino qui abbiamo parlato del principe, ora non ci resta che parlare del mostro. Non contento di aver preso moltissimi soprannomi (infatti lo si chiamava «pio», «figlio dell'accampamento», «padre degli eserciti» e «il migliore e il più grande dei Cesari»), quando un giorno sentì alcuni re, venuti a Roma per rendergli omaggio, discutere a tavola, davanti a lui, sulla nobiltà delle loro origini, gridò: «Ci sia un solo capo, un solo re» e poco mancò che prendesse subito la corona e sostituisse con il reame la funzione del principato. Dal momento in cui gli fecero capire che egli si era posto al di sopra dei re e dei principi, si arrogò la maestà degli dei; dato l'incarico di andare a cercare in Grecia le statue più venerate e più belle degli dei, tra le quali quella di Giove Olimpico, per sostituire la loro testa con la sua, fece prolungare fino al foro un'ala del Palatino e, trasformato in vestibolo il tempio di Castore e Polluce, se ne stava spesso in mezzo agli dei suoi fratelli e, mescolato con loro, si offriva all'adorazione dei visitatori. Alcuni arrivarono a salutarlo con il nome di Giove Laziale. Egli dedicò anche, alla sua divinità, un tempio speciale, un collegio di sacerdoti e vittime rarissime. In questo tempio si ergeva la sua statua d'oro, in grandezza naturale, che ogni giorno veniva rivestita con l'abito uguale a quello che lui stesso indossava. La dignità del sacerdozio veniva ottenuta di volta in volta, a forza di brogli e di offerte sempre più elevate, dai cittadini più ricchi. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, galli cedroni, polli di Numidia, galline faraone, fagiani, e ogni giorno, nel sacrificio, si cambiava la specie. E inoltre nelle notti in cui splendeva la luna piena, egli la invitava spesso a venire ad abbracciarlo e a dividere il letto con lui, mentre durante il giorno si consultava segretamente con Giove Capitolino, ora parlando a bassa voce e tendendo a sua volta l'orecchio, ora gridando e non senza aggiungere contumelie. Infatti una volta si udì la sua voce che minacciava: «o mi innalzi, o sarò io ad innalzare te,» finché, dicendo che il dio lo aveva supplicato e lo aveva invitato a dimorare con lui, congiunse il Palatino con il Campidoglio per mezzo di un ponte che scavalcava il tempio del Divino Augusto. Più tardi, per essere più vicino, gettò le fondamenta di una nuova casa sull'area del Campidoglio.
Non permetteva che lo si credesse e lo si dicesse nipote di Agrippa a causa dell'umiltà delle sue origini e si arrabbiava se qualcuno nelle opere in prosa o in versi lo citava tra gli antenati dei Cesari. Proclamava invece che sua madre era nata da un incesto di Augusto con sua figlia Giulia. Non contento di infangare in questo modo la memoria di Augusto, con il pretesto che le vittorie di Azio e di Sicilia erano state disastrose e funeste per il popolo romano, vietò di celebrarle con le feste tradizionali. Quanto a Livia Augusta, sua bisavola, la chiamava spesso «un Ulisse in gonnella» e osò perfino rimproverarle, in una lettera al Senato, la bassezza delle sue origini, sostenendo che aveva avuto per nonno materno un decurione di Fondi, quantunque sia accertato da documenti ufficiali che Aufidio Lurco abbia esercitato magistrature a Roma. Quando sua nonna Antonia gli chiese un'udienza privata, non volle riceverla che in presenza del prefetto Macrone, e fu proprio per affronti e insulti di questo genere che egli provocò la sua morte; alcuni poi ritengono che l'abbia affrettata con il veleno. Quando morì non le accordò nessun onore e, standosene a tavola, contemplò da lontano le fiamme del suo rogo. Suo cugino Tiberio fu ucciso all'improvviso da un tribuno militare, che gli aveva inviato tutto ad un tratto. Obbligò ad uccidersi anche suo suocero Silano, tagliandosi la gola con un rasoio: gli rimproverava di non averlo accompagnato un giorno che si imbarcava quando il mare era in tempesta e di essere rimasto a Roma nella speranza di diventarne padrone. A Tiberio non perdonò di aver scoperto dal suo alito che aveva ingerito un antidoto come se volesse premunirsi contro i suoi veleni. In realtà Silano aveva voluto evitare il mal di mare e le fatiche della navigazione e Tiberio aveva preso una medicina per curarsi una tosse ostinata che si aggravava. Quanto allo zio paterno Claudio se ne ricordava solo per farsene beffe.
Intrattenne relazioni incestuose con tutte le sue sorelle e davanti a tutti, a tavola, le collocava a turno sotto di sé, mentre la moglie stava sopra. Per quanto riguarda Drusilla si crede che la deflorasse quando ancora portava la pretesta e che un giorno fu perfino sorpreso tra le sue braccia dalla nonna Antonia, presso la quale tutti e due venivano allevati; più tardi la portò via all'ex console Lucio Cassio, che l'aveva sposata, e la trattò pubblicamente come sua legittima moglie; ammalatosi, la nominò erede del suo patrimonio e dell'Impero. Quando Drusilla morì ordinò una sospensione generale di tutti gli affari e per tutto questo periodo fu considerato un reato, punibile con la morte, aver riso, aver fatto il bagno, aver cenato con i parenti, la moglie ed i figli. Poi, sconvolto dal dolore, improvvisamente una notte fuggì da Roma, attraversò la Campania e arrivò a Siracusa da dove ritornò, precipitosamente, con la barba e i capelli lunghi. Da allora, in tutte le circostanze, anche le più importanti, sia nell'assemblea del popolo, sia davanti ai soldati, non giurò più se non per la divinità di Drusilla. Non amò le altre sorelle né con tanta passione, né con tanti riguardi, perché spesso le prostituì ai suoi ignobili capricci. Gli fu più facile così, in occasione del processo di Emilio Lepido, farle condannare come adultere e come complici della congiura che costui aveva ordito contro di lui. E non si limitò a pubblicare le lettere autografe di tutte le sue sorelle, che si era procurato con l'inganno e con le sue basse voglie, ma fece anche consacrare a Marte Vendicatore tre spade preparate contro di lui, aggiungendovi un'iscrizione.
per il momento mi fermo qui, anhce se è evidente che oggi un apersona del genere dovrebbe essere subito internata
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