| Caligola: nell'immaginario collettivo questo nome - dovremmo dire anche solo il suono di questa parola - evoca l'ombra della follia accompagnata al potere. Ciò che oggi potremmo definire, ripescando un refrain mediaticamente logoro, il "male assoluto". Questo perché la letteratura giuntaci dal passato, dedicata a Caio Giulio Cesare Germanico detto Caligola (nato ad Anzio il 31 agosto del 12 d.C., morto a Roma il 24 gennaio dell'anno 41), emerge dagli interessi e dalle rivisitazioni "politiche" di grandi storici della Roma antica: le voci che dipingono il personaggio di Caligola con maggior nitore e ricchezza di aneddoti sono quelle di Caio Tranquillo Svetonio (ca 70-140 d.C.) e Dione Cassio Cocceiano (ca 155-235 d.C.). Altri autori prestigiosi disposti a gettare uno sguardo - talvolta prudente, altre volte coinvolto dagli interessi di casta - su Caligola furono Seneca, Filone di Alessandria e Flavio Giuseppe, personaggi cronologicamente più vicini alla parabola dell'imperatore che, come racconta la tradizione, nominò senatore il proprio cavallo. Soprattutto gli ultimi due, ebrei, certo non potevano vedere con simpatia quella sorta di monarca provocatore che arrivò ad intimare la costruzione di una sua statua, in atteggiamento "divino", all'interno del Tempio di Gerusalemme! La voce del grande Tacito emerge a tratti, e non ha come unico bersaglio Caligola, bensì la Roma imperiale, la stessa figura dell'imperatore, il singolo in grado di usare un potere tale da umiliare le tradizioni romane, a cominciare dall'autorità senatoriale. Tanto più che degli "Annales", purtroppo, proprio i libri concernenti gli anni del principato di Caligola (e i primi anni di quello di Claudio) non sono giunti fino a noi. Quel che è certo è che Caligola, come tutti gli imperatori romani, una volta giunto sullo scranno di princeps che fu astutamente inventato (e nobilitato) da Augusto, si trovò a gestire la massima quantità di autorità che un uomo potesse immaginare: lui, e non solo lui, quel potere lo maneggiarono con cinismo e crudeltà, seguendo una condotta che oggi può, e anzi deve, apparirci mostruosa, ma che, per molti aspetti, in quell'epoca faceva parte della natura delle cose. Muovere eserciti per guerre di interesse o di semplice gloria, obbligare al suicidio rivali o personaggi in vista invisi al potere imperiale, disporre di uomini e cose in assoluta libertà: tutto questo era lo specchio di un dispotismo accettato, considerato fisiologico al momento storico. Forse, la particolarità di Caligola fu quella di dare al potere imperiale una suggestione "orientale": d'altronde l'Egitto agì su di lui con un fascino particolare, e la figura dell'imperatore fatto della stessa pasta degli Dei si affacciò a Roma proprio con il successore di Tiberio. Diverse azioni di Caligola - che Svetonio narrò con la penna intinta nel vetriolo e nella partigianeria - rispondevano a una logica storica, ed erano figlie perfette di una cornice di intrighi e lotte di potere astutamente tenute lontano dai racconti dello storico del tempo, interessato a fare della storia dei Cesari e di Roma una storia di uomini, di eroi e anti-eroi, in grado di muovere gli eventi in una direzione o nell'altra a seconda delle proprie virtù o dei propri vizi. A differenza di un Tacito, ben più disposto ad evidenziare il ruolo di "personaggi collettivi" come il popolo o il Senato. Il cui comportamento era, in Roma, tutt'altro che passivo. E poi come si fa a non impazzire se a sette anni la persona con cui devi vivere, lo zio Tiberio, ti ha ucciso il padre ed esiliata, accecata ed uccisa la madre? Caligola ebbe nella sua vita sempre il comportamento di chi ha perso tutto e non vuole più perdere niente dei suoi affetti: ecco spiegato l'eccessivo amore per la sorella e poi sin da bambino aveva avuto malattie nervose: ricordo che l'epilessia era un male di famiglia. Con questo non si vuole giudicare Caligola benevolmente ma lo si inserisce nella realtà storica in cui è vissuto. Mi pare questo dibattito avvenga tra gente interessata alla storia e non a certi stereotipi che con la storia non hanno niente a che fare. E qui le parla uno storico di professione. Riguardo a Nerone, che sin da giovane aveva avuto una grande cultura greco-ellenistica più che romana, impartitagli da precettori come Seneca, purtroppo non abbiamo alcuna opera poetica conservata sino ad oggi.
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